Zio Alfonso amava più gli ombrelli che le donne.
“Gli ombrelli, almeno quando piove sono utili. Le donne mai”, questo era il suo motto.
In famiglia lo chiamavamo Ziombrelli.
Era il primo dei cinque fratelli di mia mamma, viveva da solo e, naturalmente, non si era mai sposato.
Non perché fosse brutto, anzi Ziombrelli era persino considerato un uomo attraente, seppur basso di statura e dal naso aquilino.
Da giovane aveva lavorato sui mercantili, imparando mille mestieri. Si era imbarcato che aveva solo 19 anni ed era tornato sulla terra ferma che ne doveva compiere 40. Aveva circumnavigato l’Africa e il sud America. Tre volte partendo dal Messico era arrivato fino in Cina, attraversando il Pacifico. Era stato meccanico, cuoco, magazziniere, facchino. Ma, da un certo punto in poi, si era specializzato nelle riparazioni, in particolare degli ombrelli.
Era il tempo in cui le cose, prima di buttarle via, ancora si aggiustavano.
Coi soldi messi da parte in 20 anni di navigazione, Ziombrelli aveva comprato tre quartini in un condominio di nuova costruzione lungo la via che porta al mare. L’idea di dare i suoi soldi alle banche lo atterriva, preferiva investire nel mattone.
A mia madre, che sollevava dubbi, disse: “Non si giudica una nave stando a terra”.
Così Ziombrelli andò a vivere in uno dei quartini e fittò gli altri due ricavando una rendita mensile grazie alla quale campava.
In famiglia lo vedevamo solo durante le feste di Pasqua e Natale, quando la nonna, finché fu in vita, provava a radunare tutti i figli intorno ad un tavolo da pranzo. In quelle circostanze Ziombrelli era costretto a sottoporsi al fuoco di fila delle domande monotematiche dei parenti.
“Ma vivi sempre da solo? E non ti annoi?”, “Ma non pensi sia ora di trovarti una donna?”.
L’amaro rito dell’interrogatorio veniva consumato verso la fine del pasto, subito prima del dolce. Io, bambino, assistevo a questa sorta di esecuzione, parteggiando ovviamente per lo zio, che proprio in quelle occasioni ricorreva alla sua massima più famosa. Per me era un misto tra un esploratore ed un filosofo: gli volevo bene.
Quando la nonna venne a mancare perdemmo ogni contatto con lo zio. Lo rivedevamo fugacemente solo in occasione di cerimonie di una certa importanza, tipo nozze o funerali.
Finché un mattino di giugno, tornando a casa dal supermercato, Ziombrelli fu messo sotto dal furgoncino di un corriere espresso. All’ospedale furono costretti ad operarlo d’urgenza per la frattura del femore della gamba destra.
Seguì una riunione urgente tra tutti i fratelli e le sorelle. Costretto a letto, Ziombrelli non era più autosufficiente e bisognava trovare un volontario che almeno passasse le notti con lui. La scelta sarebbe caduta inesorabilmente su uno dei sette nipoti. Le quattro femmine furono subito scartate. Ziombrelli era inabile ma restava pur sempre un uomo.
Restavano tre nipoti. Anzi due, perché Pietro, il figlio di zia Lella, aveva solo 10 anni.
Tuttavia la riunione si concluse in fretta: il cugino Bruno si chiamò fuori millantando impegni universitari da matricola, quindi toccava a me.
Mia mamma cercò di persuadermi ricordandomi che Ziombrelli era proprietario di tre quartini e non aveva né moglie né figli. “Vedrai che ti sarà riconoscente un giorno”.
Ma non fu la futura e solo potenziale rendita immobiliare a convincermi, bensì la possibilità di essere finalmente libero dalla presenza molesta di mia sorella.
Mia madre mi accompagnò al quartino come una matricola in caserma. Abbandonandomi sulla soglia mi disse soltanto: “Coraggio”. E mi spinse dentro.
Ziombrelli, informato della mia visita, mi accolse senza nessun entusiasmo.
Allora spostai un divano letto in una camera che utilizzava come laboratorio e lo adagiai ad una parete tra una foresta di ombrelli di ogni tipo e colore. Solo il giorno dopo il mio arrivo, lo zio riuscì a trascinarsi fino in camera.
Mirandomi in quel disordine disse soltanto: “Il buon marinaio si conosce nelle tempeste”.
Così iniziò il mio periodo di assistenza a Ziombrelli.
All’inizio non fu facile, ma avevo 16 anni, un’età dove tutto è possibile.
Secondo le previsioni di mia madre, sarei dovuto rimanere là massimo due settimane, il tempo sufficiente a Ziombrelli per riprendere a deambulare aiutandosi con un carrello o un bastone.
Tuttavia dopo due settimane lo zio non aveva fatto molti progressi. Ancora lo aiutavo ad andare in bagno due volte al giorno: la mattina dopo colazione e la sera prima di andare a letto. Ma non solo. Gli facevo da segretario personale: dovevo rispondere al telefono e fare la spesa. Prima di pranzo passavo io stesso al supermercato a prendere qualcosa di pronto che mangiavamo insieme in cucina.
Lo zio amava i cannoli alla ricotta di pecora, li aveva mangiati per la prima volta a Siracusa, nel 1964. Una piccola pasticceria a pochi passi dal quartino li faceva proprio così.
Ogni cosa era strana, ma tutto sommato, quella convivenza non era così male.
Quando fu in grado di alzarsi da solo, lo zio riprese anche la sua attività di ripara ombrelli. Ne aveva a centinaia. Li raccoglieva per strada, tra quelli che la gente lasciava accanto ai cestini dei rifiuti o abbandonava sui marciapiedi. Vederlo riparare ombrelli era un vero spettacolo, li trattava con la delicatezza di un’estetista e l’attenzione di un chirurgo. Quando mi fermavo ad assistere, lo zio mi spiegava quello che stava facendo senza omettere nessun particolare. La maggior parte degli ombrelli erano danneggiati nella meccanica. Non si aprivano correttamente o, una volta aperti, non si richiudevano. Lo zio armeggiava negli ingranaggi con la pazienza di un cercatore d’oro, a volte ricorreva al fil di ferro per aggiustare i pezzi mancanti. Se vi era qualche squarcio nella tela, estraeva ago e filo da una scatola di latta e si trasformava in sarto.
In qualche occasione mi fece provare. Riparare ombrelli era affascinante, ma io continuavo a preferire le donne.
Dopo tre settimane mia madre mi disse che, se volevo, potevo rientrare a casa. Ma le risposi che lo zio aveva ancora bisogno di qualche giorno prima di tornare autosufficiente.
In realtà lo zio, seppur lentamente, era già in grado di svolgere tutte le normali mansioni domestiche, ma stavamo operando su una serie di ombrelli d’epoca e non volevo perdermi la fase finale del trattamento.
Nel frattempo la donna cinese che locava uno dei suoi quartini, si era offerta volontaria per “dargli uno sguardo”, ma zio non voleva mischiare gli affari con il privato e aveva rifiutato.
“Donna pettegola, disgrazia di marinaio” aveva sussurrato acido.
Un pomeriggio, verso le quattro, squillò il telefono. Ziombrelli, concentratissimo su una riparazione delicata, mi fece cenno di andare a rispondere. Una donna dall’accento dell’est chiedeva di mio zio.
“Potrei parlare con signor Alfonso. Per favore”
“Ora non credo sia possibile” risposi.
“Quando posso passare?” chiese allora la donna.
Le dissi di venire al mattino, verso le 11, quando lo zio solitamente era più incline alla conversazione.
Venne, infatti, precisissima il mattino dopo. Pioveva a dirotto, la donna era zuppa. Ziombrelli, dopo qualche istante di esitazione la fece entrare in casa.
Si chiamava Nadia, era di origine rumena, sui 50, massimo 55 anni. Era bionda e ben truccata. Si sedette in cucina poggiando la sua quinta di seno sul tavolo.
Era stata per dieci anni la badante di un vecchio morto una settimana prima. Così si era trovata, da un giorno all’altro, a dormire in una pensione nella quale stava prosciugando tutti i suoi risparmi.
“Non ho casa. Ancora una settimana e dovrò dormire al parco” disse allargando le braccia e gonfiando il petto.
Aveva appreso dell’incidente dello zio al supermercato, probabilmente dalla loquace cinese.
“Sono infermiera, fisioterapista. Laureata a Bucarest. Non ho parenti in Romania. Ho bisogno di lavoro” ci implorò mostrandoci una specie di diploma scritto in una lingua incomprensibile.
La storia di Nadia era così triste che chiunque essere umano sarebbe crollato. Ma non Ziombrelli, che quando lei ebbe finito di parlare, si alzò e lentamente si diresse nell’altra stanza. Fuori pioveva ancora forte.
Io e Nadia rimanemmo rinchiusi in un imbarazzante silenzio fino a quando lo zio ricomparve portando con sé un bellissimo ombrello, stile «belle epoque» con il disegno a quadri, appena riparato. Le disse: “In nave persa, tutti son piloti; La ringrazio ma non ho bisogno”, poi porgendole l’ombrello aggiunse: “Tenga. Così non si bagna”.
Ricordo che Nadia prese l’ombrello, ringraziò lo zio e si allontanò.
Annotai comunque il suo recapito su un biglietto che aggiunsi alla rubrica dello zio. “Casomai ti venisse in mente qualcuno che ha bisogno” gli dissi.
All’inizio di luglio Ziombrelli tornò in ospedale. L’ortopedico disse che potevano togliergli il gesso e iniziare la vera e propria riabilitazione.
“Ora però si deve impegnare. Deve fare gli esercizi” gli raccomandò.
Tornati a casa, rimettendo le mie cose nella valigia gli dissi: “Ricordati degli esercizi. Impegnati”.
Mi ripromisi che lo avrei chiamato un paio di volte a settimana per sapere come procedeva la riabilitazione.
Quell’estate, io con la mia famiglia, andammo in Calabria, sullo Ionio. Mio padre aveva preso in fitto un monolocale a Soverato in una specie di villaggio vacanze. Avevo giurato che non sarei mai più andato in vacanza con i miei genitori e infatti quella fu l’ultima volta. Ma non mi pentii mai di aver accettato. A Soverato conobbi Giulia, una ragazzina di Gallarate che insegnava nuoto ai bambini degli ospiti. A me, invece, insegnò ad andare sott’acqua dove ci scambiammo il nostro primo bacio.
Chiamai Ziombrelli una volta sola. Mi rispose piuttosto affannato: “Tutto bene. Sto facendo gli esercizi, scusa ma non posso trattenermi”.
Che estate fu quella del 1989 a Soverato !. Non ci fu un solo giorno in cui non mi immersi in quei fondali sabbiosi in cerca dell’amore. Fino a quando, l’ultimo fine settimana di agosto il vento girò e nella baia irruppe il maestrale. Il mare si alzò in tempesta e iniziarono i temporali.
La pioggia ci sorprese in casa solo con due piccoli ombrelli, entrambi rotti.
Fu allora che mi ricordai degli insegnamenti dello zio. Distrussi il primo ma l’intervento sul secondo riuscì alla perfezione. Resisteva alle raffiche di vento come il migliore dei baluardi.
Anche il giorno che Giulia prese il treno per Milano, diluviava.
La accompagnai alla stazione, ci tenevamo stretti per non bagnarci, sotto l’ombrello riparato. Alla scaletta del treno glielo regalai. “Prendilo tu” le dissi “Ti sarà utile. A Milano piove spesso”.
Le garantii che l’avrei chiamata tutti i giorni. Ma mia madre sosteneva che le interurbane costassero troppo, così ci rinunciai.
Intanto intendevo tornare al quartino a salutare lo zio.
Ma passarono altre settimane, e quando a fine settembre mi decisi, pensai che per farmi perdonare gli avrei portato dei cannoli. Ricordo che era una grigia domenica di inizio autunno. Piovigginava.
In pasticceria incontrai Nadia, la riconobbi dall’ombrello a quadri stile «belle epoque» e naturalmente dalla sua quinta di seno. Aveva appena preso una mega confezione di cannoli siciliani. Non sapevo cosa dirle e sperai non mi riconoscesse. Invece fu lei a chiamarmi: “vieni… vieni da zio!” mi urlò.
Quel giorno pranzammo con i cannoli. Io, Nadia e Ziombrelli che dopo un mese e mezzo di riabilitazione aveva recuperato completamente l’uso della gamba destra.
Indicandomela, mi disse: “E’ infermiera, fisioterapista… è utile!”.
Tenni il segreto per qualche tempo, finché la solita cinese andò a dire tutto a mia madre e al resto della famiglia che sulle prime stentò a crederci.
Secondo me, gli ultimi 10 anni di vita di Ziombrelli sono stati i più felici e pazienza se ho dovuto rinunciare ad una potenziale rendita immobiliare.
In fondo sono contento che ora quei tre quartini siano passati a sua moglie.
Nadia.
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