Giuseppe Pontiggia, forse il migliore degli scrittori italiani del secondo novecento (pari merito con Italo Calvino), disse che l’incipit di un romanzo è decisivo “come l’apertura nel gioco degli scacchi. Se sbagli le prime mosse hai compromesso lo sviluppo della partita”.
Lui stesso raccontò di aver sbagliato l’incipit nella prima stesura di uno dei suoi romanzi più noti “La grande sera” (Premio Strega, 1989). E di essere riuscito a correggerlo solo durante una revisione successiva, dopo molti tentativi a vuoto.
Tornano sovente gli scacchi nella scrittura di Pontiggia, sono presenti anche nel romanzo “Il giocatore invisibile” del 1978, che anticipa di un anno la riedizione de “La morte in banca” romanzo biografico scritto in gioventù e pubblicato nel 1959 a soli 25 anni, durante la sua esperienza di bancario, lavoro che gli aveva trasmesso il padre, funzionario e bibliomane. Fu Elio Vittorini a consigliargli di dedicarsi alla scrittura e lasciare il lavoro in banca. Pontiggia diverrà quindi insegnante serale e poi consulente di case editrici, esperienza che lo spingerà verso la narrativa.
“La grande sera” è un romanzo straordinario dove Pontiggia tiene fede ad un altro dei suoi principi “la trama è niente senza il linguaggio”. Ed è proprio nello stile che la scrittura di Pontiggia fa la differenza. Essenziale, esatto, emozionale. I suoi dialoghi sono quadri in movimento, l’uso degli aggettivi e la precisione delle metafore quelli di un impareggiabile maestro. Le sue storie avanzano inesorabili, senza aver bisogno di movimenti improvvisi, sono come le maree, mentre sembra che nulla accada, tutto accade.
Pontiggia è insieme giallista e noir, sentimentale, ironico, drammatico e ascetico; i suoi personaggi sono lame che attraversano, squarciandola, l’ambiguità della società contemporanea. I suoi ritratti della Milano degli anni ottanta s ono come cinema.
Ritratti di esistenze immaginarie e apparentemente insignificanti che daranno corpo al suo libro più originale “Vite di uomini non illustri” del 1993, dal quale Monicelli trasse il film “Facciamo paradiso” e chiaramente omaggiato (plagiato?) da Paolo Sorrentino con il suo “Gli aspetti irrilevanti” libro del 2016.
Ma è in “Nati due volte” (Premio Campiello, 2000) che Pontiggia raccoglie le sue energie più profonde, svestendosi dai panni di narratore ed entrando in quelli di padre, impegnato a fronteggiare i drammi quotidiani di un figlio affetto da tetraparesi spastica. “Nati due volte” è il più potente, straordinario e bello (nel senso più puro del termine) libro scritto sulla disabilità. Ma pure sulla normalità che ci tormenta ma, in fondo, non esiste, sulla vergogna e l’inadeguatezza di un genitore, sul rapporto angoscioso tra diversità e felicità.
Pontiggia confessò di aver impiegato 15 anni ad accettare la condizione del figlio e altri 15 per decidere di raccontare, con amarezza, ironia e sofferenza, la storia tormentata della sua famiglia. Dal libro Gianni Amelio trasse il film “Le chiavi di casa” con Kim Rossi Stuart, pellicola pluripremiata presentata al festival del cinema di Venezia del 2004.
Chiunque abbia a che fare con la disabilità, genitore, parente, terapista, medico, dovrebbe leggere “Nati due volte”.
Due anni fa, in piena pandemia, è uscito un libro “Per scrivere bene impara a nuotare” (Mondadori, 2020) che raccoglie 33 conversazioni con Pontiggia, appare sulla rivista “Wimbledon” tra il 1990 e il 1993 accompagnate da 4 lezioni di scrittura pubblicate sul settimanale “Sette” nel 1994. Una sorta di testamento metodologico, una piccola bibbia per ogni scrittore o aspirante tale.
Ma soprattutto un modo per conoscere meglio uno scrittore impareggiabile, scomparso nel 2003, che non si mostrò praticamente mai in televisione, preferendole la radio.
Una lettrice un giorno gli chiese: “Lei Pontiggia, racconta spesso storie di tradimenti, di infelicità. Perché non racconta di una unione felice, senza nubi, per tutta la vita?”.
“Ma signora” rispose lui “non sono uno scrittore di fantascienza, io mi occupo di altre cose”.
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