Il mio amico Armando è da una vita che ripara apparecchiature elettroniche.
Mentre io, da ragazzino, giocavo a pallone in cortile, lui restava nella sua camera ad armeggiare con vecchie radio e cavi elettrici.
Quando al liceo mi scervellavo sul teorema di Carnòt, lui si applicava sui circuiti stampati. Saldava stagno alla base di minuscole resistenze.
Montava potenziometri, raccordava collegamenti interrotti.
Frequentavo l’università, quando Armando aprì la sua attività.
Un piccolo garage, riadattato a laboratorio.
La chiamò “Ripararmando”.
Geniale: il verbo alla terza persona unito col suo nome formava una nuova parola, che pareva un gerundio. Il tempo delle cose in movimento, delle azioni che si stanno compiendo. Un presente che profuma di futuro.
In quel posto tutte le cose malandate ritrovavano un loro futuro inaspettato.
Il laboratorio “Ripararmando” era composto da un unico ambiente, lungo e stretto. Prima dell’arrivo di Armando, suo zio ci sistemava fino a tre auto in fila. Dalle piccole finestre disposte su di un solo lato, in alto, filtrava una luce gialla, sporca di cemento e tetti.
Armando teneva un piccolo banco in ferro, di traverso, due metri dopo l’ingresso; là, come un infermiere premuroso, si faceva consegnare l’articolo difettoso accogliendolo tra le sue braccia. Quindi compilava una scheda che finiva in un raccoglitore enorme.
Dietro al piccolo banco, Armando aveva posizionato una tenda blu. Nello spazio retrostante c’era un tavolo, messo per lungo, che raggiungeva il fondo del garage dove un’altra tenda, sempre blu, fasciava un bagno minuscolo che, a causa della roba disseminata sul pavimento, era quasi impossibile raggiungere.
Mentre mi barcamenavo tra colloqui di lavoro e corsi di formazione, il “Ripararmando” diventò un’attività di successo.
Decine di tivù color giacevano sulle mensole in attesa che le sapienti mani di Armando gli restituissero vita. Radio, che avevano raccontato centinaia di partite di calcio, aspettavano mute, che Armando gli restituisse la voce. E poi tostapani, frullatori, lampade e lampadari, phon, un purgatorio di corpi elettrici in attesa di sentire ancora il profumo del proprio futuro.
Armando, come un luminare, apriva la carcassa di ogni aggeggio e ne studiava l’interno. Scrutava ogni filamento controllando i collegamenti, assicurandosi che la corrente scorresse come sangue nelle sue vene. Piantava, con mani ferme, le punte del tester su ogni saldatura, come a voler sentire il battito di un cuore invisibile.
Se non gli era possibile riparare, allora Armando sostituiva il pezzo.
Cercava in un cimitero di arnesi morti (che io ritenevo lo fossero per l’indifferenza di altri), ed estraeva il frammento giusto, trapiantandolo nel malato. E se quel pezzo non c’era, non esisteva o non era previsto, allora Armando lo creava: si inventava un modo per farlo daccapo.
Trovava pure la maniera di fare a meno di un pezzo irrimediabilmente danneggiato. Distendeva un filo che, agile, dribblava ogni resistenza, arrivando dritto al transistor. Quel by-pass consentiva alla corrente di andare da un punto ad un altro, evitando la ferita.
Come se, in ogni meccanismo, non fossero davvero indispensabili tutte le parti.
Ad un certo punto, il “Ripararmando” si riempii di videoregistratori. Armando era l’unico che li riparava in città.
Fu quello il paradosso del “Ripararmando”: un luogo dove si respirava il futuro si riempì di un oggetto condannato, per esistere, a riproporre solo il passato. E non una, non dieci. Ma infinite volte.
Armando amava i videoregistratori.
“Non c’è nulla di più simile al corpo umano di un videoregistratore” mi disse quando gli chiesi il perché.
Ne teneva, sempre, almeno uno sul tavolo, smontato in mille parti.
Il guscio metallico diviso in due, viti disseminate intorno, la scheda principale sollevata in verticale. E poi l’intreccio delle cinghie, il carrello di acciaio lucido, ruote dentate che, sollecitate, scattavano all’unisono, muovendosi una nell’altra come per un ballo.
“Guarda: il sistema è composto da parti elettriche e da parti meccaniche”.
Un’anima invisibile e una struttura fisica, dunque.
Il contatto elettronico mette in tensione le cinghie e il corpo della VHS viene risucchiato all’interno. Le ruote dentate si aggrappano ai fori della scatola riavvolgendo il nastro per posizionarlo precisamente sulla testina che lentamente si affaccia sul bordo, sporgendo dalla carlinga.
Armando seguiva quel movimento preciso con lo sguardo, apprezzando il rumore degli ingranaggi. Lo scatto secco del carrello che ingoiava la VHS, la corsa del riavvolgimento.
Spingeva “play” e le immagini ricomparivano.
Venivano da tutta la città a portare videoregistratori da riparare ad Armando. All’orario di apertura si formava una piccola coda all’ingresso. Uomini e donne di ogni età, chi in una busta, chi avvolto in un fagotto, portavano il loro congegno a riparare.
Il lavoro per Armando sembrava non finire mai.
Non gli bastava controllare che tutti i circuiti funzionassero. Sentiva il bisogno di oliare le cinghie, tenere in efficienza i muscoli di quell’essere, le sue articolazioni fragili usurate da migliaia di slanci.
Armando riparava ogni videoregistratore che gli veniva affidato.
“Ci vuole attenzione! Appena qualcosa si rompe bisogna intervenire” mi disse un giorno “Senza rimandare!”.
Ogni corpo ha bisogno di manutenzione quotidiana, pensai.
“Se adesso non riparassi questa cinghia, il meccanismo farebbe fatica a riavvolgere il nastro e le ruote dentate comincerebbero a girare a vuoto. Tutto si trascinerebbe con fatica, finché la testina rimarrebbe bloccata o striscerebbe su questa parte ruvida. A quel punto sarebbe tutto inutile”.
Guardai le mani di Armando sfilare quel laccio plastificato e misurarlo con cura. Quindi aprire un cassetto del banco e tirare fuori decine di cinghie, estrarre quella giusta e riposizionarla nel corpo del videoregistratore.
Magicamente, ricomparvero le immagini.
Rimanemmo a guardarle per circa un minuto. Poi Armando mi sorrise e, sollevandosi dalla sua seggiola, spense tutto.
Nel “Ripararmando” sono stati riparati per molti anni videoregistratori e altri arnesi finché questi sono rimasti preziosi. Poi è capitato che le cose malate o rotte si possono anche buttare per comprarne di nuove.
“La chiamano obsolescenza programmata” mi spiegò Armando.
“E da quanto esiste?”.
“Non so. Da tempo. Credo”.
A causa dell’obsolescenza programmata, poco per volta, al “Ripararmando”, il profumo del futuro iniziò ad evaporare.
Rari phon, nessun tostapane. Una sola radio, antica, da collezione, qualche televisore a schermo piatto sulle mensole. Il raccoglitore di schede quasi vuoto. Si poteva attraversare facilmente il laboratorio e giungere alla tenda del bagno, senza inciampare.
Armando restava al suo posto. Sulla seggiola, a cercare il flusso della corrente ovunque si nascondesse.
“Ma fino a quando esisteranno i videoregistratori, esisterà il Ripararmando” mi disse, fiero.
Un pomeriggio di Novembre mi accorsi del suo affanno e delle mani che non erano più ferme come una volta. Quando era capitato? Da quale giorno in poi il corpo di Armando si era iniziato a danneggiare?.
Si era guastata prima la parte dell’anima o quella del fisico?.
Ma soprattutto: ora chi poteva riparare Armando?.
“Dovresti andare da un medico! Farti dare uno sguardo” gli dissi.
Armando mi guardò come lo guardavano quelli che gli consegnavano un videoregistratore, la speranza muta di chi vorrebbe rimandare una data di scadenza.
“Ci vuole attenzione!” aggiunsi.
“E’ un po’ che mi guardano medici”.
“E che dicono?”
“Mi aprono, riparano, cambiano un pezzo, tolgono qualcosa, richiudono”.
Un mese fa è nato il primo nipote di Armando. Gli han messo il suo nome.
Dicono ci sia una vaga somiglianza. Ma è presto per dirlo.
Son ripassato da là: l’insegna del “Ripararmando” non c’è più. Ho guardato dentro: ci sono tre auto in fila.
Più nessuno, in città, ripara videoregistratori.
(dedicato al ricordo del sign. Vincenzo D. B.)
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