TRE PIANI DI SOLITUDINE

Venerdì scorso, 21 aprile, Rai3 ha trasmesso in prima visione “Tre piani” film che Nanni Moretti ha tratto da un romanzo del 2015 (pubblicato in Italia nel 2017 da Neri Pozza) dello scrittore israeliano Eshkol Nevo.

Fu lo stesso Moretti, dopo averlo letto, a richiederne i diritti. Sulla base del soggetto letterario, in collaborazione con Federica Pontremoli e Valia Santelia, ha elaborato la sceneggiatura del film, ricevendo per questa una candidatura al David di Donatello.

E qui si (ri)pone l’eterno dilemma su quanto le trasposizioni cinematografiche rendano giustizia ai libri.

Sicuramente, se ogni bel romanzo può essere potenzialmente un bel film, allora Nevo può essere saccheggiato senza timore (splendido, ad esempio, è il suo “La simmetria dei desideri”, romanzo certamente “cinematografabile”).

Dunque è comprensibile la volontà morettiana di portare al cinema la storia di “Tre piani”, anzi le storie perché il romanzo di Nevo, ambientato a Tel Aviv (Moretti sposta l’azione a Roma) intreccia le vicende di tre famiglie dimoranti in uno stesso condominio a livelli sovrapposti, lo merita il romanzo, brillante, a lunghi tratti inquietante e persino doloroso come un pugno nello stomaco.

Nevo che è un formidabile compositore di intrecci e drammi domestici, pone i suoi protagonisti dinanzi ai laceranti drammi dell’orgoglio e della solitudine. Le debolezze degli uomini, la fragilità dei bambini, le ossessioni delle donne, aggravate da una società che non lascia scampo.

E’ così dappertutto o c’è, come qualcuno ha ipotizzato, la sintomatologia di una sindrome da “accerchiamento” spina nel fianco degli israeliti?.

Nella terza parte del libro, la voce narrante decifra i piani come i livelli dell’anima teorizzati da Freud.

Al primo piano l’”Es” sede delle pulsioni e dell’istinto, al piano di mezzo l’”Io” mediatore tra desideri e realtà e al piano in alto il “Super-Io” che ci riconduce alla razionalità e ci suggerisce di tener conto degli effetti delle nostre azioni sulla società. Tuttavia ognuna di queste parti deve fare i conti con l’esigenza di esistere. Nessun livello dell’anima può mostrare nulla di sé se non c’è qualcuno disposto ad ascoltarlo. Così i monologhi (i monologhi di tutti noi) sono costretti a confrontarsi con orecchie immaginarie, segreterie telefoniche spente, conoscenti lontani e irraggiungibili.

O sui social, se preferite.

L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo (…)”.

Moretti mischia i piani e le storie, e in qualche modo attenua le tragedie del libro, regalando una consolazione ai protagonisti e ammorbidendo gli spigoli che pure in altri casi aveva disposto ben acuminati (un suo film su tutti “La stanza del figlio”). La sua attrice feticcio, Margherita Buy, con Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, ma pure i bambini (Chiara Abalsamo, Giulia Coppari) tengono alta la tensione, anche se (opinione personale) il librò è un’altra cosa.

Ma il merito più grande di Moretti, in questo caso, è aver fatto scoprire ad un numero maggiore di italiani Eshkol Nevo.

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