Ci sono rivali subdoli, quasi invisibili, che attaccano la vita e la carriera lavorativa dell’architetto. Uno di questi è la pausa pranzo.
Premesso che gli architetti, anche se a volte non sembra, sono esseri umani come tutti gli altri e che, quindi, hanno bisogno di cibarsi; occorre precisare che, a causa della vita sregolata che conducono, fanno fatica ad avere pasti regolari.
Costretti a muoversi tra cantieri, uffici, riunioni, appuntamenti capestro e spostamenti tra tutte queste cose, non riescono a ritagliarsi il tempo adeguato per effettuare la pausa pranzo. A volte ad esempio sono costretti a mangiare panini in macchina negli stalli dei parcheggi degli ipermercati, o avanzi generosamente donati dagli operai sul cantiere; oppure cibarsi di snack rimediati nei sali e tabacchi o crackers custoditi nella borsa e quindi ridotti alla consistenza della polvere.
Molti sostengono che l’eliminazione della pausa pranzo, concorra a favorire avanzamenti di carriera, accumulo di titoli, incarichi politici e successo nei concorsi. Ma non ve n’è prova certa.
Secondo uno studio scientifico la percentuale di architetti che perdono la sfida contro la pausa pranzo, ovvero si concedono ad essa, è inversamente proporzionale alla loro distanza dall’equatore. In sostanza: quanto più il clima è clemente e il soleggiamento incrementa, tanto più l’architetto è incline a rilassarsi e a concedersi la pausa pranzo.
Non a caso il maestro della pausa pranzo è il messicano che ha istituzionalizzato la siesta. Infatti gli architetti messicani famosi sono pochi.
Questa competizione è dunque fortemente condizionata dalle condizioni climatiche ed ambientali. Questo crea una disparità territoriale che, purtroppo con le conoscenze attuali, non è compensabile in alcun modo.
Ecco la classifica dei cinque modi per perdere la sfida contro la pausa pranzo, in relazione a dove la si consuma.
Al quinto posto – Nello studio. Molti architetti, non volendo rinunciare alla pausa pranzo, decidono di dotarsi di cibo take away, preparato contestualmente alla colazione o addirittura la sera prima e di cibarsi utilizzando direttamente la scrivania dello studio, scansando appena la tastiera del pc, magari nel tempo di attesa di una renderizzazione. In questi frangenti la durata della pausa è funzione della velocità del processore del computer. Talvolta si tratta di pasti miseri, precotti o a base di pane e mela. In ogni caso, trattandosi di pause pranzo solitarie e comunque molto tristi, possiamo anche considerarle alla stregua di un pareggio.
Al quarto posto – Nello studio-casa. Una sconfitta onorevole è pranzare nello studio quando lo studio si trova in casa o adiacente ad essa. In questo caso l’architetto deve solamente cambiare stanza, il rilassamento è pressoché impalpabile, al massimo può mettersi le ciabatte. E’ una resa dignitosa: l’architetto si concede il tempo strettamente necessario per consentire il deflusso naturale del cibo dalla cavità orale alla prima frazione intestinale; tuttavia, in caso di urgenza, è pronto a tornare operativo nel tempo di caricamento di un Autocad light.
Al terzo posto – A casa. Una sconfitta chiara ma non disastrosa è quella che si consuma praticando, in occasione della pausa pranzo, la nobile arte del ritorno a casa, magari sfruttando la collaborazione di un compagno/a addetto/a alla preparazione del pasto. Architetti meno rigorosi si concedono anche il lusso di spegnere il cellulare, seppure per tempi assai limitati. Chi non ha una casa o magari ce l’ha ma non ha nessuno che gli fa trovare pronto, può fare la pausa pranzo al ristorante o in amichevoli trattorie dove, durante il pranzo, è costretto a fornire consulenze circa infiltrazioni di umidità o sciogliere dubbi sulla scelta di nuovi rivestimenti per la toilette.
Al secondo posto – A casa dei genitori. Comincia a manifestarsi come una piccola Caporetto la pausa pranzo a casa dei genitori. L’architetto sa che non sarà mai un pranzo frugale e che il carico calorico supererà la dose minima normalmente assorbita in una settimana. In casi particolari, tipo ricorrenze o festività, si tratta di pause pranzo che sconfinano fino al pomeriggio. Per i più romantici c’è anche l’appendice della visita alla vecchia camera da letto con l’”appoggio” sul letto d’infanzia e consequenziale lacrima di malinconia. Si tratta di pause pranzo di lunghezza incalcolabile, nella metà dei casi infatti queste perdono persino le caratteristiche di “pause” e vengono definite “stazionamenti”.
Al primo posto – A casa al mare. Architetti particolarmente audaci, poco legati al recupero calorico ma molto inclini al riposo e dimoranti in particolari latitudini in prossimità della costa, decidono di effettuare la pausa pranzo presso la loro seconda casa che si trova al mare. Questa casa, che l’architetto tiene appositamente per l’esercizio delle fughe, è dotata di provviste a lunghissima scadenza: carne e tonno in scatola, taralli, pacchi di pasta, sughi di pesto e conserve di pomodoro. Nonché superalcolici, caffè e limoncello. Inoltre è dotata di attrezzature balneari (bermuda, bikini, infradito, pareo, creme protettive oramai inefficaci e materassini però sgonfi) e anche di un divano letto comodissimo in una stanza freschissima e silenziosa. Spesso queste case al mare sono pure posizionate in luoghi irraggiungibili da qualsiasi segnale telefonico. Queste pause pranzo, praticabili nel ciclo primavera-estate, spesso finiscono con pennichelle di alcune ore che producono inquietanti dissociazioni dalla realtà, curate con robuste dosi di moka o di Campari Soda. Alla fine l’architetto viene dato per disperso mentre è intento ad attrezzarsi per la cena o, nell’imminenza del weekend, per la notte.
Le ultime tendenze valutano che per gli architetti rinunciare regolarmente alla pausa pranzo non garantisce automaticamente il successo professionale. Per questo motivo molti decidono intenzionalmente di abbandonarsi a questo sottile piacere.
Insomma, architetti, non si sa bene se questa sfida contro la pausa pranzo convenga perderla o vincerla!.
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