Una delle battaglie sempre attuali per l’architetto è quella contro la carta da parati. Si tratta di una sfida che combatte da solo, a volte incompreso ed osteggiato da tutti, e che non sempre vince, ma sulla quale si gioca il futuro del mondo civilizzato.
Gli architetti odiano la carta da parati dal giorno in cui, solitamente al corso di arredamento, si sono imbattuti, su un qualsiasi libro di testo, nel signor William Morris. Tale artista britannico, fondatore del movimento Arts & Crafts, che con i suoi disegni tra l’astratto ed il geometrico ha allettato intere generazioni di studenti con attacchi di labirintite notturni ed incubi devastanti.
La carta da parati segue pari passo la moda dell’abbigliamento: quando ci si veste male anche la casa viene tappezzata male. Per questo motivo la carta da parati ha avuto il suo massimo successo intorno agli anni settanta del XX secolo, ovvero quando i giovani si mettevano i pantaloni a vita bassa con la zampa d’elefante e le camicie a motivi psichedelici. Nello stesso periodo, i conservatori rispolveravano la giacca a quadri e la scarpa di pelle col tacco. Di conseguenza, negli appartamenti di tutto l’occidente, le pareti venivano coperte da motivi geometrici, ipnotici, o viceversa da tonalità pastello con micro fiori.
Il momento di mettere la carta da parati era stabilito dal proliferare di impronte di mani e piedi che venivano rinvenute sui muri al termine dei festini psicotonici. In pieno stile anni 70 la decisione veniva presa in maniera anarchica, con riunioni familiari pseudo-massoniche. A quel punto si convocava un imbianchino di fiducia che raggiungeva l’appartamento con un paio di cataloghi grandi quanto album di foto da matrimonio e li sottoponeva ai proprietari della casa. Nella scelta della carta da parati il parere dell’uomo era assolutamente irrilevante (così come per la cucina, il divano, le tende, i lampadari eccetera). La donna sceglieva la carta da parati in funzione del colore dei mobili, dei tendaggi, del pavimento, ma anche in base al clima, all’umore e al suo giorno del ciclo.
L’imbianchino, alcune volte il tappezziere, impiegava un tempo indefinibile a rivestire tutte le pareti di casa con i parati, lasciando una puzza di colla sichozell che costringeva gli abitanti a lasciare le finestre aperte per i successivi 20 giorni, trasferendosi altrove.
Di tutta questa operazione l’architetto veniva tenuto all’oscuro. Quando, casualmente, passava nella casa da lui ristrutturata, per prendere un caffè o per farsi finalmente pagare, scopriva la presenza della carta da parati. Ma oramai era troppo tardi. In altri casi, durante l’arieggiamento dei locali, l’architetto veniva chiamato a controllare “quanto fosse venuto bene il lavoro”.
La battaglia contro il parato, all’inizio del nuovo secolo sembrava vinta. Architetti facevano orgogliosamente scollare migliaia di metri quadrati di carta dalle pareti di appartamenti da riprogettare. Sotto vi rinvenivano, come novelli archeologi, affascinanti graffiti, dichiarazioni d’amore, numeri di telefono, schedine del totocalcio e cazzi stilizzati.
Poi sono arrivate le carte da parati di design e la battaglia è tornata a farsi durissima.
Stilisti, designer, fuffisti di tutto il mondo, agitando nell’aria il loro foulard di seta e pailettes, inneggiano al parato di design come mutamento estetico, rivoluzione ambientale, e svolta etica. In 3d, ecologica, a strisce, con le scritte, damascata, bucolica, vintage eccetera. Molte cose che hanno inevitabilmente un costo, infatti il parato di design costa a metro quadro quasi quanto l’appartamento. Oggi la carta da parati non è più un operazione sovversiva effettuata clandestinamente ma è una richiesta esplicita ed inquietante che il committente rivolge al tecnico.
Ed è esattamente in quel momento che l’architetto rivede il fantasma di William Morris nei suoi peggiori incubi.
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