Nunzia è convinta di possedere un artificio eccezionale, in grado di far innamorare qualsiasi uomo.
Una specie di arma finale, custodita nell’arsenale del suo armadio.
Ha raggiunto questa convinzione attraverso anni ed anni di esperimenti.
“Questo perché l’uomo è fondamentalmente un essere stupido” ama spiegarmi sovente.
“Basta trovare il suo punto debole ed è fatta!”.
Tutte le volte che Nunzia mi parla del punto debole degli uomini io cerco di riconoscere il mio.
“Quale sarà il mio punto debole?” chiedo.
“E’ molto probabile che il tuo sia uguale a quello di tutti gli altri” continua la sua lezione.
E’ convinta che le basti indossare un vestito rosso per ottenere quello che desidera.
Uno in particolare, che tiene da parte esclusivamente per tale scopo.
“Gli uomini non sono così stupidi!” tento, arditamente, la difesa d’ufficio della categoria.
Tuttavia, Nunzia sostiene che tutte le volte che ha deciso di fare colpo, l’è bastato indossarlo.
A sostegno di questa teoria propone alcuni esempi pratici.
Alan, una delle sue storie più appassionate e longeve, dopo molte indecisioni crollò dinanzi alla vista di lei fasciata in quell’abito.
E Paolo? Le contrattazioni proseguirono per mesi, finché lei decise di giocarsi la carta “abito rosso”. E lui cadde di schianto.
Ma il caso più clamoroso fu senza dubbio quello di Erry. Nunzia aveva completamente perso la testa per quell’energumeno, che, nonostante tutto, continuava a rifiutare le sue avances.
Per una questione di orgoglio, Nunzia provò a fare a meno dell’abito rosso, finché, stufa, lo sfoggiò durante una cena di gala.
Erry capitolò in fretta, anche se, questo me lo disse Nunzia tempo dopo, successivamente si rivelò ampiamente al di sotto delle aspettative.
“Si tratta solo di una serie di coincidenze. O di abbinamenti fortunati” le ho detto.
“E’ merito del rosso!”
“Al massimo potremmo eleggerlo come il tuo colore portafortuna”.
Convincerla è impossibile.
D’altronde anche a me il rosso piace.
Per un periodo ho pure posseduto un auto rossa. Una splendida Alfa 75. Il colore lo avevo scelto io. Aveva i sedili foderati di vellutino scuro nei quali sprofondavo come in poltrona. Il mio ciuffo di capelli si intravedeva appena dal parabrezza. Era tanto ampia quanto dura di sterzo. Quando spuntava dalla rampa del garage, ruggendo aggressiva, attirava l’attenzione dei passanti come una vettura sportiva in principio, d’epoca alla fine. Non credo fu, mai, un fattore per agevolarmi in qualche conquista. Tra l’altro, la presenza di un portaoggetti tra i posti anteriori rendeva complicato qualsiasi approccio fugace.
Nunzia, che più volte la saggiò in veste di passeggera, sosteneva che quella fosse un auto adatta alle relazioni stabili.
In questo periodo Nunzia si vede con un tipo strano. Le da appuntamento sempre di mattina nella piazza del conservatorio.
“Come hai detto che si chiama?”
“Jan”
“Che razza di nome è Jan?”.
“E’ svedese”.
“Di cosa parlate?”.
“Di tutto e niente. Lui ama Bach”.
L’ho guardata perplessa. Immagino che Nunzia non sappia niente di Bach e che prima di incontrare Jan, pensasse fosse il nome di un bagnoschiuma.
“E’ un musicista?”
“Non lo so. Non gliel’ho chiesto. Mi attrae fisicamente”.
Ogni volta che Nunzia mi confessa che un uomo le piace, vengo percorso da un brivido di angoscia. Un dolore misto: 50% fastidio, 50% gelosia.
“Cos’ha di bello?”
“Un po’ tutto”.
“Gli occhi? Chiari?” conosco le preferenze di Nunzia.
“Chiari si. Impercettibilmente strabici, sempre un po’ persi, come a fissare un punto nel vuoto”.
Da quel momento esatto, una voce dentro di me cominciò a suggerirmi di sabotare quella storia. Di darle consigli sbagliati e di dissuaderla da qualsiasi nuova iniziativa, predicando disfattismo.
Così quando mi disse che lo avrebbe incontrato indossando quel vestito rosso, non seppi trattenere un cenno di stizza.
“Ma non dicevi fossero solo coincidenze?”
Ne ero convinto ma preferivo non rischiare.
Le dissi che quel vestito non andava bene per la mattina. Che occorreva un’occasione più formale, che in fondo si conoscevano da troppo poco tempo.
Il risultato fu che Nunzia, quella strega, mi tenne nascosto luogo e data del successivo incontro con Jan.
Attraversai più volte la piazza dove erano solito vedersi.
Passai e ripassai dinanzi al vecchio portone del conservatorio.
Spiavo ogni bar, le panchine tra le aiuole, cercavo nel parcheggio la sua auto e a volte mi pareva di vederli occultarsi frettolosi nell’androne di qualche palazzo antico.
Ma mai li vidi.
Col trascorrere dei giorni provai a non pensare più a Jan e Nunzia. Rimossi dalla mente l’immagine di lei in quell’affascinante abito rosso contro la quale si poteva, lo pensavo davvero, opporre davvero poca resistenza.
La immaginavo scuotersi lasciva come una Jessica Rabbit in carne ed ossa, per circuire quel coniglio di Jan.
Impiegai alcuni giorni a scacciare quell’immagine dallo schermo dei miei occhi. Ma quella continuava a comparirmi dinanzi ogni volta che li socchiudevo. Inoltre, ogni oggetto rosso che finiva nel mio campo visivo mi suscitava un filo di malessere.
Quando quella specie di incubo corallino sembrava essersi dissolto, ricevetti una telefonata di Nunzia.
“Avevi ragione sai” mi disse con un filo di voce.
Mi sentii sollevato come il capitano di una nave che, scampata la tempesta, entra in porto.
“Il rosso non ha funzionato. Non è successo nulla”.
“Nulla…?”.
“Nulla”.
Provai un’improvvisa stima per quello strano esemplare di uomo scandinavo. La sua rigidità nordica aveva rivalutato l’intera specie maschile, riposizionando le gerarchie sessiste al consueto livello evoluzionistico.
Inoltre quel rifiuto aveva liberato me e Nunzia da un incantesimo. Ora nella percezione sessuale di Nunzia (e di conseguenza anche nella mia), il rosso era uguale al blu, che era uguale al bianco, al nero e al viola.
Seppi che Nunzia ripose quell’abito nell’armadio, coprendolo con una busta di cellophane, ben protetto dalle tarme dei tessuti grazie ad adeguate dosi di naftalina.
Mi confessò, con le lacrime agli occhi che, probabilmente, non lo avrebbe indossato mai più.
Dopo molto tempo, ma solo per puro caso, abbiamo scoperto altri particolari su Jan.
Era davvero un musicista, un pianista, piuttosto noto in patria. Ritornava dalle nostre parti per una serie di concerti.
Incrociata una locandina, comprammo un giornale per cercare sue notizie sulla cronaca locale.
Le trovammo in un’intervista che Jan aveva rilasciato per la pagina degli spettacoli.
Nunzia era molto curiosa. In fondo pur essendosi frequentati per un periodo non breve, lei non sapeva praticamente niente di lui.
Ci sedemmo su un muretto del parco e cominciammo a leggere.
La sua foto campeggiava sotto un titolo a 12 colonne che recitava “Io, pianista oltre ogni ostacolo”. Sorrideva, in piedi, accanto ad un pianoforte a coda sul quale poggiava un braccio in una posa piuttosto naturale.
“Davvero un bel tipo” dissi.
Nunzia sospirò.
Iniziammo a leggere.
La giornalista si era concentrata sulla sua vita, sulle sue origini povere, sulle difficoltà incontrate durante gli anni di studio duro e appassionato.
Leggemmo velocemente la prima metà dell’articolo, finché rallentammo di colpo quando arrivammo alla parte in cui Jan parlava della sua infanzia complicata, segnata da alcune malattie dalle quali era, fortunatamente, sempre guarito.
Ora conservava un solo disturbo.
Marginale, invisibile, non invalidante per la sua professione, ma piuttosto noioso.
Vidi Nunzia impallidire. Confesso che anch’io ci rimasi piuttosto male.
Chiusi il giornale. Proseguire la lettura ci parve inutile.
Quella notizia ci aveva sconcertato.
Jan era daltonico.
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