RICCARDO E L’AMORE, PRIMA DELL’AMORE

Che le mie mani fossero piccole me ne accorsi a tredici anni. Accadde quella volta che io e Riccardo fummo in mare insieme a contenderci un pallone rosso di gomma e finimmo per mettere i palmi delle nostre mani uno contro l’altro. La sua mano sorpassava di tanto la mia, fin quasi a includerla.

“Ma che mano piccola che hai” mi disse.

“La mia mano non è piccola: è normale, è la tua che è enorme” gli risposi.

Ecco: adesso l’unica cosa che mi ricordo con precisione di Riccardo è che aveva le mani grandi.

Riccardo aveva le mani grandi perché era un portiere. Nell’estate dei nostri tredici anni, fu acquistato dalla squadra del “Bagno Florida” per il torneo di calcetto che si teneva in Agosto.

Era l’estate di trent’anni fa.

In realtà quando dico «acquistare», non significa esattamente che lo avessero comprato con dei soldi, voglio solo dire che lo avevano preso in quella squadra, ma a quel tempo si diceva così; quando si formavano le squadre per il torneo, si utilizzava il linguaggio del campionato di serie A.

In verità, io di Riccardo non mi ricordo solo le mani. Ricordo anche i suoi occhi: nerissimi; le braccia e le gambe sottili, la pancia piatta e il sorriso. Perché Riccardo, tra le molte cose che faceva bene, c’era anche sorridere. E poi Riccardo era alto, magro e invincibile, proprio come doveva essere, nella mia fantasia, un portiere di calcio.

Veniva da un paese del Lazio, per questo per il nostro torneo era considerato uno «straniero». “Quelli del Bagno Florida in porta hanno preso uno straniero”, questa era la frase completa che si diceva in quei giorni, prima che iniziassero le partite.

Si sentiva dire in spiaggia, o parlando intorno alla fontana del lungomare, tra i capannelli degli adolescenti che trattavano una partita di calcetto come una questione di vitale importanza.

Io e Riccardo ci conoscemmo per caso.

Era già Agosto.

Il pomeriggio, al tramonto, io e i miei amici restavamo in spiaggia, facevamo dei tiri con il pallone di gomma, usando un muro del lungomare come porta. Mi ricordo che era faticoso giocare sulla sabbia in salita, ma noi non ci stancavamo mai. Finché un giorno si presentò un tipo che non avevamo mai visto.

“Se vi manca il portiere, posso giocare io” ci disse.

A noi mancava sempre il portiere. In genere facevamo a turno.

Ci guardammo, poi qualcuno fece di sì con la testa, allora Riccardo si mise in porta e cominciò a saltare da un palo all’altro (che poi il palo era una palancola per le barche messa per dritto o uno zaino). Aveva i tendini dei polpacci sottili, bianchi ed elastici e poi ovviamente quelle mani enormi che trattenevano ogni tiro, anche il più violento.

Fargli goal era difficile. Quando riuscivo a segnargli, lo prendevo in giro. Gli urlavo: “Non l’hai neanche vista passare!”. Riccardo non rispondeva: si rimetteva dritto in piedi e ci faceva segno di continuare. Cominciammo a vederci in spiaggia ogni sera, senza darci appuntamento, quando il sole andava a nascondersi ed era l’ora che bisognava rimettersi la maglietta.

Giocammo insieme per molte sere, sotto la luce dei lampioni, sempre con lo stesso spirito.

Ma più passava il tempo più provavo una strana gioia a vedere Riccardo respingermi ogni tiro, anche quando tentavo, con un’acrobazia, di sorprenderlo. In quelle circostanze, con la coda dell’occhio, non smettevo di seguire la corsa del pallone per vedere se Riccardo fosse capace di arrivarci.

Io colpivo la palla in rovesciata, Riccardo si tuffava e respingeva. Io riprovavo in tuffo, di testa, Riccardo bloccava sicuro e mi sorrideva.

Se parava, mi sorrideva sempre.

Quella sera restammo più tempo del solito, Riccardo continuava a dirmi di tirare più forte: l’inizio del torneo si avvicinava.

Fu un tiro più violento del solito, Riccardo lo respinse con i pugni delle sue mani grandi, uniti.

Il pallone rosso s’impennò altissimo poi ricadde, rimbalzando verso il mare. Lo guardammo rotolare fino a riva, raggiungere l’acqua, dove un’onda lo risucchiò trascinandolo a un paio di metri dalla battigia.

“Chi va a prenderlo?” chiese Riccardo.

“Tu” dissi: “Tu l’hai respinto”.

“Tu hai tirato così forte!”

“Sei stato tu a dirmi di tirare più forte!”

E mentre eravamo là che ci rimbalzavamo la colpa, il pallone si allontanava.

Finché Riccardo con un movimento unico e svelto si tolse la maglia e corse in acqua.

Fece tutto rapidamente.

Vidi la sua schiena incurvarsi fino al tuffo e lui che dava due bracciate forti nel mare basso. Le sue mani enormi salivano perpendicolari alle spalle e poi s’infilavano nelle onde, ogni bracciata era uno schiaffo. Dalla spiaggia non potevo sentire il rumore delle sue mani ma vedevo gli schizzi sollevarsi.

In pochi secondi, Riccardo era già dalle parti del pallone, gli montò sopra, facendolo sparire. Vedevo solo la sua testa, la sua nuca scomparire e riaffiorare.

“Scemo, vieni, è caldissima” disse.

A quell’ora non avremmo potuto fare più la doccia in spiaggia e nemmeno asciugarci. Sarei tornato a casa fradicio. Questi erano i motivi per dire di “no”.

Ma c’erano anche mille motivi per dire di “si”.

Che era estate, che eravamo ragazzini con tutta la vita davanti. Che tanto non ci sarebbe venuto neanche il raffreddore perché a una certa età si è indistruttibili.

Con mia madre avrei trovato una scusa qualsiasi e lei mi avrebbe perdonato.

Non feci in tempo a pensare ad altro che mi ero già tolto la maglietta e stavo correndo verso Riccardo.

“Passa a me” urlai quando gli fui a un metro.

“Vieni a prenderlo, se ci riesci” rispose.

La furia del gioco ci trascinò sott’acqua una, due, dieci volte. Ma più rotolavamo tra le onde, più acqua salata mandavamo giù nei polmoni e più ridevamo. Se Riccardo stringeva la palla tra le braccia, io provavo a strappargliela strattonandolo da dietro e lui faceva lo stesso con me. Entrambi affondavamo. Se avevo paura di non tornare a galla, cercavo le sue mani enormi.

Finché le nostre mani si affiancarono.

“La tua mano è davvero troppo grande”.

“Mi serve per fare il portiere” rispose.

“A scienze ho studiato che il nostro cuore è grande quanto il nostro pugno.” gli dissi.

Lui strinse la mia e insieme, rotolandoci, finimmo a riva, sulla battigia, la sabbia fine e bagnata ci entrò nei costumi, ogni tanto ci pulivamo scuotendo le anche per poi tornare a rotolarci; calciavamo il pallone lontano per poi correre a riprenderlo. E chi arrivava per secondo, si lanciava sul corpo dell’altro.

Ci vedemmo ancora altre sere, Riccardo al centro della porta di fantasia ed io a tirargli sempre più forte, finché una delle ultime volte accadde qualcosa di strano: non volevo più fargli goal.

Preferivo vederlo sorridere. Tiravo il pallone in modo che lui potesse tuffarsi e arrivarci in perfetto stile.

Quando iniziò il torneo, smettemmo di giocare in spiaggia. La sera eravamo tutti intorno al campo a guardare le partite. Io ammiravo Riccardo che difendeva la sua porta, incoraggiava i compagni, si puliva le ginocchia, Riccardo che gioiva, che si disperava dopo una rete incassata, Riccardo e le sue mani grandi.

Agosto era quasi terminato, quando una sera vidi Riccardo al tavolo della pizzeria festeggiare con la sua squadra, non avevano vinto il torneo e non l’avevamo vinto neanche noi. Invidiai quella compagnia, avrei voluto tradire la mia e sedermi tra loro, ma non per essere uno di loro ma per essere amico di Riccardo. Un amico certificato, di quelli che si scambiano il numero di telefono di casa e l’indirizzo. Di quelli che fai la fotografia insieme e poi la conservi nel cassetto della scrivania, per sempre.

Ma non fui mai uno di quelli.

Riccardo partì e l’anno dopo non ritornò. La squadra del “Bagno Florida” non si formò più. Gli amici di Riccardo, alcuni di quelli che avevo visto festeggiare con lui, formarono una nuova squadra. Trovarono un altro portiere, con mani normali e un sorriso qualunque.

A volte mi guardo ancora le mani: sono rimaste piccole, piccole come disse Riccardo quel giorno, quando eravamo in acqua.

“Sicuramente il tuo cuore sarà molto grande” gli dissi.

Fu in quel momento che sentii le sue mani stringermi in modo diverso. Scivolare lungo la mia schiena e poi ancora più in basso.

Quel gioco durò un tempo che mi sembrò infinito.

Finché insieme non affondammo.

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