Probabilmente sono in pochi a ricordare che nel caso Italia e Germania avessero pareggiato la finale dei mondiali nel 1982, non ci sarebbe stata l’appendice dei rigori ma la gara si sarebbe rigiocata due giorni dopo.
Particolare personalmente non irrilevante perché, il 13 luglio, la partita si sarebbe sovrapposta alla festa patronale del mio paese. Accavallandosi con l’intoccabile processione, che a quel punto sarebbe stata anticipata, o addirittura annullata.
Tutti ricordano, invece, dove si trovavano quella sera, quell’11 luglio di quarant’anni fa. Anche io, ovviamente.
Quell’estate il nostro televisore a colori si era guastato e giaceva sul tavolo di qualche chirurgo del transistor in attesa di essere riparato. In casa erano rimasti due televisori in bianco e nero. Quello della cucina, il più grande, deformava le figure, l’altro era così piccolo che si faceva fatica a distinguere le immagini.
Quella della nazionale di calcio del 1982, invece, era tutta riassunta nelle rughe del viso del commissario tecnico, il friulano Enzo Bearzot.
Bearzot era un uomo selvatico e sincero. Era diventato commissario tecnico nel 1975, in coppia con Bernardini, dopo il fallimento del mondiale tedesco dell’anno prima. Aveva mancato la qualificazione all’europeo del 1976 a causa di un disgraziato 0 a 0, a Roma con la Finlandia. Nei mondiali argentini era giunto quarto, giocando il calcio più bello e battendo (l’unico a riuscirci) i padroni di casa, poi vincitori del torneo. A causa di altri due 0 a 0, fatali, fu di nuovo quarto agli europei casalinghi del 1980. Nell’ultima gara di qualificazione per i mondiali del 1982, l’Italia di Bearzot sconfisse il Lussemburgo con uno striminzito 1 a 0. Gli azzurri lasciarono lo stadio di Napoli sotto una selva di fischi. I giornalisti, gli addetti ai lavori, i celeberrimi 60 milioni di allenatori italiani, volevano la sua testa.
Ma Bearzot non si scompose, era un uomo solitario e cocciuto. Attese il suo pupillo, Paolo Rossi, che nell’aprile del 1982 terminò di scontare l’ingiusta pena di due anni per calcio scommesse. Rossi giocò solo tre partite di campionato, ma furono sufficienti per guadagnarsi i mondiali al posto del capocannoniere Pruzzo.
A me Bearzot piaceva, somigliava a mio nonno, anche se al posto delle sigarette nazionali, fumava la pipa.
Il poeta Arpino lo soprannominò Vecio (vecchio). Eppure Bearzot nel 1982 aveva soltanto 55 anni.
Il giorno di Italia – Polonia, il nostro esordio nel mondiale, mio padre decise che almeno le partite dell’Italia avremmo dovuto guardarle a colori. Così portò me e mio fratello a casa della nonna (sua madre) che aveva un bel tv color perfettamente funzionante. Intorno allo schermo, nel soggiorno che odorava di chiuso, ci sedemmo come alla messa. Le partite del girone non furono un grosso divertimento. Paolo Rossi era un brocco. Non vincemmo mai. Eliminammo il Camerun che esattamente come noi collezionò tre pareggi. Ma noi avevamo segnato un goal in più. Quello di Bruno Conti col Perù.
Poi improvvisamente accadde qualcosa. Già dopo la gara con l’Argentina, iniziò a serpeggiare un imprevisto entusiasmo.
Quando fu la volta di affrontare il Brasile, tutto quel giallo sulle maglie e nelle loro bandiere mi sembrò accecante. Fino a quel momento, nella nostra piccola televisione senza colori, il Brasile col suo manipolo di fuoriclasse, era una macchia grigia come tutte le altre squadre.
Ogni volta che un brasiliano si lanciava in dribbling verso l’area di rigore mio padre urlava: “acchiappa a questo…”
Tremavamo, quando l’ala sinistra, Eder, prendeva la rincorsa per tirare un calcio di punizione. Lo chiamavano “O Canhao” (il cannone), in una rissa gli avevano sparato al braccio e fumava 30 sigarette al giorno. La leggenda vuole che la punizione che permise a Zico, sulla ribattuta, di segnare l’1 a 0 sull’Argentina sia stato il tiro più forte della storia del calcio: 174 km/h.
Zoff, più grande di mio padre di due anni, vittima sacrificale era anche l’unico a poterci salvare.
Ma quel giorno, segno del destino, Eder non centrò mai la porta.
Sul 3 a 2 io e mio fratello non reggemmo la tensione e scendemmo giù in strada. A sette anni o non te ne frega niente oppure non reggi l’emozione. Delle urla ci richiamarono in casa, non era il fischio finale ma il goal annullato ad Antognoni. Mancavano ancora due minuti. Interminabili.
Quella sera qualcuno si tuffò nell’antica fontana. Chiudo gli occhi e ho ancora nelle orecchie il rumore incessante dei clacson.
Difficile ricordare un’allegria così spudorata, incontenibile. L’Italia veniva fuori da un periodo di lutti e disgrazie, ne era stufa: voleva ridere.
Eravamo in bianco e nero ma desideravamo essere a colori.
Nuovi comici, sensazionali, giravano i loro primi film: Verdone, Troisi, Nuti. I novelli canali televisivi commerciali riempivano i nostri pomeriggi di telefilm americani e le serate di paillettes. Le estati erano interminabili, giocavamo a pallone in strada. Portavamo le scarpe coi buchi, le Primigi o le Kickers. Riavvolgevamo le musicassette con la matita. Con 100 lire giocavamo una partita ai videogame sullo chalet.
E’ stato bello essere bambini negli anni ’80.
Dopo la partita col Brasile eravamo sicuri che avremmo alzato la coppa del mondo. Il Dio del calcio si era schierato.
Eravamo così convinti che avremmo vinto, che la sera dell’11 luglio, ci trasferimmo a casa di mio zio per festeggiare coi cugini. Il suo televisore a colori era ancora più nuovo e grande.
Quando nel primo tempo, l’arbitro ci assegnò il rigore, mio zio ordinò al maggiore di posizionare la bandiera sul balcone. Non fece in tempo a sventolare nemmeno un secondo, Cabrini sbagliò e dovette ritirarla dentro. La rimise poco dopo. Al 3 a 0 mio zio iniziò a sparare i fuochi d’artificio. Dei potentissimi trak. Ma tutto il paese dava fuoco alle polveri. Pertini si alzò in piedi in tribuna. L’uomo che era stato 14 anni prigioniero e al confino per antifascismo, condannato a morte ed evaso grazie ai partigiani, esultava come il più adolescente dei tifosi.
Neanche ci accorgemmo del goal della bandiera dei tedeschi.
Nel caldo di quella sera di luglio, mi ricordo questa enorme bandiera, quasi immobile, sul balcone della casa di mio zio. E i fuochi artificiali, illuminare il cielo, tutt’intorno.
Sulla strada già i primi caroselli d’auto. Una lunga colonna che sembrava non finire mai (ma non osai chiedere a mio padre di tirare fuori la “Ritmo” quasi nuova dal garage, per aggregarci).
I giocatori di quel mondiale, nel mio immaginario di bambino, divennero degli eroi invincibili. Anche se nello sport non si è mai imbattibili. Ce ne accorgemmo tutti, anche Bearzot che non raggiunse l’europeo del 1984, arrivando quarto in un girone di cinque squadre, davanti solo a Cipro e vincendo una sola partita su otto. E che ai mondiali del 1986 provò a fidarsi ancora dei suoi eroi, e venne nettamente sconfitto dalla Francia di Platini, negli ottavi, terminando così, senza gloria, la sua avventura da allenatore della nazionale.
Ma niente intaccò il ricordo sensazionale di quei giorni.
La sera dell’11 luglio di quarant’anni fa, le strade si riempirono di auto, motorini e treruote. Tutti avevamo una bandiera da sventolare.
Eravamo così ingenui da pensare che una felicità così, si sarebbe ripetuta.
Invece, così forte, non è tornata mai.
FOLLOW ME ON TWITTER: @chrideiuliis – search me on LINKEDIN
Sei un architetto o ti senti tale? Hai un parente o un amico architetto? COMPRA e/o REGALA: “L’Architemario in quarantena – Prigionia oziosa di un architetto”. Il libro che ogni architetto, vero, finto, parente o amico di, deve assolutamente leggere!. CLICCA QUI PER ORDINARLO SU AMAZON
Leggi anche: Cabine! Cabine!
Il sogno della signora Bauhaus