QUANT’E’ AGRA LA VITA!

“A me dispiacerebbe morire negli scantinati, in quel tanfo di nafta e di gatto, magari senza nemmeno un letto per farci defecatio post mortem, e attendere lì legato a una sedia, a occhi chiusi, scomodo, che arrivino i becchini. Voglio morire tranquillo, e voglio anche un funerale solenne”.

Così scriveva Luciano Bianciardi ne “La vita agra” nel 1962, in uno dei passaggi più amari del suo libro più bello. Bianciardi, grossetano, appartiene alla categoria degli scrittori italiani morti disgraziatamente troppo giovani, (altri due nomi? Pier Vittorio Tondelli e Cesare Pavese) dimenticato, è stato riscoperto di recente anche grazie al lavoro di sua figlia Luciana.

La vicenda letteraria di Bianciardi segue le sue vicende personali. La sua passione politica tutta a sinistra, sempre accanto alle lotte operaie, in particolare a sostegno dei minatori di Ribolla, ai quali dopo l’incidente del 4 maggio del 1954 (43 morti a causa dell’esplosione del gas grisou) dedicò un’inchiesta pubblicata sull’Avanti, giornale con il quale collaborava prima di dedicarsi alle traduzioni e, quindi, alla scrittura della sua trilogia della rabbia, di cui “La vita agra” è l’atto conclusivo.

Sulla morte, la sua giunse nel 1970 a soli 49 anni per cirrosi epatica da alcolismo, Bianciardi scrive ancora: “Ora, così par che dica (il morto), arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio. Pagateli voi i conti, e non i vostri soltanto, ma anche i miei, per la cassa, il trasporto, la buca al cimitero. E sorride”.

Trasferitosi a Milano per inseguire ambizione e benessere, il protagonista del libro, proprio come l’autore, si scontra con la realtà del boom economico, con la società corrotta e ingiusta, con le segretariette con le gambe secche, i tafanatori quotidiani e i funzionari pagati solo per sollevare la polvere.

Meditando di far saltare in aria il palazzo della Montecatini (cioè i padroni della miniera) detto “Il torracchione”, mentre studia il piano viene risucchiato nella Milano dei bar e delle sezioni di partito, trovando un nuovo amore che sostituisce la moglie (col figlio) rimasta a casa in provincia alla quale continua a mandare oi soldi per gli alimenti. Impossibile non rivedere la storia dell’autore che ebbe figli da due donne diverse e riuscì a farsi licenziare dalla Feltrinelli (casa editrice che aveva contribuito a fondare) per “scarso rendimento”.

Ne “La vita agra” il mondo della cultura, delle redazioni che pagano a cartelle (venti al giorno, obbligatoriamente), dei dirigenti tagliateste e degli operai invisibili, del padrone di casa che campa di affitti, è tratteggiato nei suoi aspetti più amari con il sarcasmo sprezzante del contestatore disincantato e nevrotico. La vita di Bianciardi è quella agra di un idealista, difensore dei deboli, diventato egli stesso un debole schiacciato da un mondo che disprezzava e che lo ricambiava trattandolo da alieno.

Ma il romanzo è così attuale da sembrare scritto appena l’altro ieri, ed è soprattutto una grande lezione di autoironia e resistenza. Bianciardi contesta il sistema anticipando i ragazzi del ’68, mostra i limiti del consumismo nel momento della sua massima espansione, risponde alla Milano conviviale ed “europea” con l’illusione di bastare a sé stesso, nella solitudine e nella nostalgia confida per coltivare i sogni della sua piccola felicità borghese, bearsi di sentirsi l’intellettuale isolato.

Nel suo j’accuse contro un certo mondo editoriale, si ritrovano ancora molte delle polemiche attuali sul mondo ingessato della cultura. Sulla vuotezza di tanti libri e la vanagloria degli scrittori, una su tutte: la moda di scrivere di viaggi.

Io per esempio ho un amico scrittore che una volta andò in aereo fino a Pechino (…) Eppure siccome è uno scrittore serio, tornando non si è mica messo a parlare dei cinesi! Al contrario, ha continuato a parlare dei cecinesi, e fa bene, perché quelli li conosce davvero!

Quando Bianciardi scrisse “La vita agra” aveva 40 anni, il mondo era diverso e la maggior parte delle cose bisognava conoscerle attraverso i libri ma lui aveva già l’esperienza e lo spessore di chi aveva già capito cosa e come saremmo diventati.

“Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti”.

Da “La vita agra” è stato tratto anche un film, omonimo, per la regia di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi nella parte del protagonista, selezionato tra i “100 film italiani da salvare”.

Su Bianciardi ho scritto anche: Vita agra di un intellettuale

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