Fin da piccolo non sono mai stato legato alle cose. Non le ho mai desiderate veramente, non ho voluto mai giocattoli, la bicicletta, le scarpe nuove. Ho sempre pensato che avrei potuto essere felice anche senza possedere le cose. Oppure accontentandomi di quello che sarebbe arrivato naturalmente, semplicemente vivendo. Mi sono sempre chiesto, ogni volta, se fosse giusto desiderare di avere quell’oggetto in più, se me lo meritassi davvero, se fossi stato in grado di usarlo in maniera adeguata.
Per questo nella mia vita ho comprato poche cose, e anche quelle poche cose materiali in verità nascondevano un emozione.
Il valore economico delle cose che ho acquistato è molto inferiore al loro valore emozionale, al significato che gli attribuivo anche in materia simbolica. Così, in generale, ho oggetti di scarso valore economico, ma ai quali sono molto legato. Le mie due chitarre, la racchetta, il violino (che non ho mai imparato a suonare), la telecamera digitale, tutti i miei libri. Di queste cose mi ricordo sempre precisamente il momento nel quale li ho comprati, il perché, dove e cosa pensavo di farne. Nessuno di questi oggetti risponde ad un bisogno semplicemente pratico, alcuni di loro andrebbero sostituiti da modelli nuovi e migliori, ma in mancanza di un motivo valido, oggi, farei fatica, molta fatica, a separarmene.
I miei oggetti sono sempre la trasposizione non di un vuoto interiore, bensì di un “troppo pieno”, di un desiderio di convertire in momenti una serie di pensieri, sensazioni, idee. Che fosse musica, movimento, immagini. I miei “troppo pieni” sono diventati quasi sempre pagine di diario, incontri, amicizie, ricordi, viaggi, fotografie, emozioni, amore, rimpianti. Ma ci sono anche “troppo pieni” che si concretizzano in cose materiali.
Torno su questa riflessione tutte le volte che devo comprare un oggetto nuovo, spesso semplicemente un mezzo che mi metta in condizione di crearne altri. Capita ad esempio con la tecnologia, strumento di passaggio, intermediario tra il desiderio e il suo compimento. Forse per questo oggi, quando è possibile, mi fabbrico gli oggetti da me. Perché le idee sono diventate parte del mio lavoro, della mia vita, e nessuno meglio di me potrebbe attribuirgli la forma esatta. Quella felicità rinchiusa nell’anima, in un progetto che può farsi materia in modo esatto. I miei oggetti funzionano e non funzionano, alcuni sono scomodi, altri sono senza un senso preciso, altri sembrano accomodanti e allegri, sono paradossali e provocatori, malinconici, riflessivi, appaiono come follie o come risposte a domande molto precise: sono come me, sono il mio mondo. Raccontano una storia; sono il sintomo di un cambiamento, di un evoluzione, di uno scalino nuovo. Sono anche loro, nel piccolo, delle architetture.
Tutto ciò che mi aiuta a comprenderli, disegnarli, immaginarli, è benvenuto. Che sia una canzone, un ricordo, un luogo lontano, un profumo, un libro, oppure semplicemente una stampante o una scatola di colori nuova.
(Aprile 2007)
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