PERTURBAZIONE

Io e Nadia camminavamo lungo il corso principale quando iniziò a piovigginare.

Privi di ombrello, centrati dalle prime gocce allungammo il passo.

Così neanche vedemmo l’artista di strada che, immobile su un piedistallo, simulava una statua vivente. Passammo un incrocio col rosso, ignorammo la vetrina della libreria davanti alla quale ci fermavamo sempre.

Di slancio, entrammo in una caffetteria.

I telegiornali avevano diffuso l’allerta meteo per l’arrivo di un’estesa perturbazione.

Dinanzi alla panca dove ci sedemmo, uno schermo era sintonizzato su un canale tematico di notizie.

Le immagini provenivano dal litorale già flagellato dalle piogge.

«La perturbazione procede rapidamente verso sud» disse la voce fuori campo «si raccomanda di mettersi in viaggio solo se strettamente necessario».

Fissavo la scena: marosi giganteschi invadevano il lungomare di una città sommergendo alberi già abbattuti come birilli. Una tromba d’aria aveva completamente scoperchiato un edificio sollevandone il tetto come un cappello dalla testa di un anziano.

Nadia, insensibile alla minaccia, compose nervosamente un numero col cellulare rimanendo in attesa.

Aveva urgente bisogno di recuperare l’auto dal meccanico.

Le era necessaria per recarsi ad un appuntamento di lavoro fuori città.

Al ritorno doveva frettolosamente riempire la valigia e correre in aeroporto per salire su un aereo. Il giorno dopo avrebbe dovuto partecipare ad un convegno nel ruolo di relatrice. A sera sarebbe risalita su un nuovo aereo per tornare a casa. Credo avesse anche un altro appuntamento la mattina seguente al quale, però, pensava di recarsi in treno.

Un cameriere smunto e bianchiccio ci chiese cosa avessimo intenzione di prendere.

«Due caffè!» disse Nadia senza sollevare lo sguardo dal display.

Il telegiornale vomitava immagini apocalittiche.

Un uomo si lamentava di aver perduto l’intero raccolto.

Un altro svuotava invano una cantina, utilizzando un secchio.

Nadia riuscì a parlare con il meccanico. Sentivo la voce di lui, giustificarsi goffamente.

Capii che l’auto di Nadia non era ancora pronta. Non era una buona notizia.

Nadia urlò che gli accordi erano diversi. Divenne minacciosa.

Gridò alcuni insulti irripetibili.

Il barista e il cameriere, intanto, erano scomparsi.

Nadia continuava ad urlare al telefono.

Le sfiorai la spalla per indurla al contegno.

Neanche se ne accorse: strepitò finché non le venne promessa un auto sostitutiva.

Quando ebbe finito, ricomparve il cameriere con i nostri caffè.

Ce li servì insicuro, traballando con le mani e il busto. Come spinto da una raffica di corrente.

Sollevai gli occhi: sullo schermo comparì la furia di un fiume in piena. Ondate di fango travolgevano automobili in sosta, spostandole di peso.

Il consiglio era di restare inattivi, al coperto, fino al cessato allarme.  

Avrei voluto convincere Nadia a restare.

Desideravo dirle: “Torniamocene a casa e aspettiamo che passi la bufera” ma sapevo che non avrebbe funzionato; impedirle il movimento l’avrebbe resa inquieta, instabile.

Non solo non l’avrei arginata, anzi: probabilmente mi avrebbe anche chiesto di seguirla.

Nadia bevve subito il caffè, mentre io ancora lo zuccheravo.

«Scappo in concessionaria» mi disse stampandomi uno striminzito bacio sulla guancia.

Velocemente, come s’era rabbuiata, così le era tornato il sereno.

«Ci si vede più tardi. Se riesco. Altrimenti domani. Ti aggiorno».

Saltò giù dallo sgabello, evitò due clienti che sostavano sulla soglia e, incurante della pioggia, si allontanò, schivando agilmente le pozzanghere salticchiando sui tacchi alti.

Rimasi seduto ancora qualche minuto.

Si era fatto improvvisamente buio. Lampi di luce precedevano boati.

La perturbazione stava arrivando.

Quando uscii dalla caffetteria la pioggia era aumentata di poco.

Lungo la via principale le persone allungavano il passo, ognuno verso il proprio riparo.

Seguivo le loro ombre schiacciarsi sul fondale dei palazzi prima di sparire.

Pochi ombrelli aperti resistevano a stento alla furia del vento.

Ripassai davanti alla vetrina della libreria. Fissai per qualche istante i titoli in esposizione. Diedi un’occhiata all’interno. La sala era deserta, un solo commesso, seduto alla cassa, fissava scocciato il soffitto.

Stavo per entrare quando vidi, ancora più chiaramente, lampeggiare all’orizzonte.

Uno, due, tre lampi uno dietro l’altro. Talmente ravvicinati che i fragori dei tuoni si sovrapposero.

“Eccola la perturbazione. Arriva!” pensai.

Ripassai all’incrocio col rosso, sfidando le autovetture in transito.

Quando fui dinanzi alla ragazza abbigliata da statua vivente, mi bloccai.

Fissa, come in foto, la ragazza rimaneva sorprendentemente imperturbabile al clima della strada.

Solida, nel suo tenace equilibrio.

Solo con il deposito di una moneta, avrebbe avuto la licenza di muoversi, ma solo per un breve inchino.

“Prima o poi succederà” pensai.

Ma, guardandomi intorno, mi accorsi che lungo quel cammino fradicio eravamo rimasti soli.

Vidi anche che Nadia mi aveva scritto un messaggio: sapevo già cosa voleva dirmi.

Quando la pioggia aumentò di intensità mi aspettavo che la ragazza si ridestasse, scendesse dal piedistallo e riprendesse le sue cose per tornare a casa, anche lei come tutti.

Al sicuro. In attesa del passaggio della perturbazione.

Invece non si mosse, continuò a restare immobile.

Ed io dinanzi a lei.

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