NEL PAESE DI V.

campanileLuigi e Donato si erano ritrovati lungo quella statale a causa della chiusura dell’autostrada.

Un camion di grandi dimensioni aveva invaso la corsia opposta rovesciando un carico di arance sulla carreggiata. Erano rimasti incolonnati per alcune ore, con l’aria condizionata alla velocità massima, finché erano stati deviati sulle vie interne, cioè sulla statale. Quindi si era trattata di una coincidenza, di un fatto occasionale, non voluto.

Luigi infastidito dal contrattempo guidava nervoso lungo la via stretta, lungo i lati correvano i fossi utilizzati per l’irrigazione ma ora vuoti, al di là dei quali grandi distese di granoturco e alberi da frutto.

La radio infilava uno dietro l’altro notiziari, misti a musica country, americana.

Era la prima settimana di Agosto, Luigi e Donato tornavano a casa da una fiera, erano partiti presto per poter arrivare a casa entro l’ora di pranzo ma erano già quasi le 14 e mancavano almeno altre due ore al traguardo.

Nella pianura tracciata da fiumiciattoli asciutti, dozzine di rotatorie piantate in mezzo ad incroci nel nulla; piccoli ammassi di case si vedevano ogni tanto in lontananza e in mezzo ad ognuno di essi un sottile campanile con il piccolo tetto a punta tagliava il cielo cereo di quell’estate umida.

Ad ogni campanile corrispondeva un posto, il segnale di tante esistenze: una, mille storie.

Donato conosceva quei posti, ricordava il colore livido di quel cielo e la monotonia di quei canali. Teneva a mente l’odore intenso dell’asfalto picchiato dal sole e le rapide svolte delle auto agli intrecci, sapeva che quando in quei luoghi cala la nebbia della sera è la linea di mezzeria ad indicare il suolo e quando, le mattine d’inverno, il bordo della carreggiata è ghiacciato, bisogna esser prudenti.

Probabilmente non avrebbe saputo orientarsi: aveva percorso quelle strade sempre da passeggero, distratto a contare i campanili e a misurare la distanza delle case, attento ad ogni cartello che gli raccontava di paesi sconosciuti con nomi curiosi, anche distanti decine di chilometri: troppi.

Borghi che non vide mai ma dei quali conosceva il nome e ad un certo punto la direzione, ma solo per qualche minuto perché poi tornava la campagna immutata, si proponeva un’altra rotatoria e bisognava girare altrove.

Andarono così, per una decina di chilometri, finchè Donato non riconobbe il grande cartello del “Benvenuti a”, a cento metri dal semaforo, prima dei capannoni industriali e poi le recinzioni del campo di calcio con i riflettori alti. Si ricordò della strada che entrava in paese, così larga, con le corsie dritte ed asfaltate, le strisce pedonali tra le prime case basse, con l’intonaco rosa e giallo.

Ebbe la sensazione che il nastro del tempo si fosse riavvolto, mentre Luigi si guardava intorno oltre il finestrino, decidendo di accostare.

Cerchiamo una trattoria in questo paese. Ci fermiamo per il pranzo. Com’è che si chiama questo posto qui ?”.

Donato rispose il nome a memoria, come se quella fosse casa sua. O perlomeno lo fosse stata.

Luigi girò ancora due volte agli incroci, con il senso obbligato, costeggiò il torrente e si ritrovò davanti ai portici nella piazza centrale.

Vado a chiedere dov’è che possiamo mangiare qualcosa” disse Luigi e gli fece un cenno con la mano come per dire, aspettami qui.

Donato lasciò fare, non intervenne, non rispose.

Restò immobile, paralizzato nel sedile come in attesa che gli tornassero le forze, che il canale lungo il quale le informazioni dal cervello arrivavano ai muscoli delle braccia e delle gambe venisse riaperto. Come l’autostrada.

Donato conosceva quella piazza, sapeva che poco distante c’era un piccolo ristorante ma era chiuso a pranzo. Ma un pò più in là, oltre la salitella, c’era una trattoria sempre aperta, anche ad Agosto, dove si mangiava la migliore pizza della zona. Si poteva andare anche a piedi, si passava sotto l’arco in pietra, sulla stradina con l’acciottolato e poi si girava, per pochi metri, a sinistra.

Dal vetro dell’auto Donato fissava dritto il balcone dinanzi a sé. Le lesene in calce sotto la ringhiera in ferro battuto; conosceva ogni angolo di quei portici, la cartoleria che vendeva i libri ma non i quotidiani e l’edicola che in estate chiudeva a mezzogiorno, infatti era chiusa, sbarrata.

All’angolo in fondo, la vecchia sala giochi con il biliardo e i flipper, i vecchi a sera che giocavano a carte intorno ad un tavolo in alluminio su sedie in plastica bianca. Le grappe accanto alle carte raccolte, i cappelli posati sul muretto.

Luigi era sparito dalla vista, si era infilato in uno dei vicoli alla ricerca di qualcuno.

A quell’ora ogni negozio era chiuso, alcune serrande persino abbassate, nella piazza regnava il generale silenzio della pausa; di tanto in tanto si sentiva il rumore delle gomme stridere sull’asfalto: le auto intorno che giravano rapide inforcando la discesa ripida verso la campagna.

Donato sapeva che sarebbe bastato aspettare qualche minuto e certamente un auto sarebbe arrivata proprio là, al centro della piazza, fermandosi negli innumerevoli stalli, sempre vuoti almeno per metà. Uomini ben vestiti ne sarebbero usciti in valigetta di pelle. Oppure sarebbe arrivato uno di quei pulmini a sei posti, parcheggiando storto, a cavallo delle strisce, da dentro operai in tuta blu o dai colori arancio e arancione, sarebbero usciti di fretta parlando ad alta voce, ridendo, dandosi forti manate sulle spalle.

Era una scena che Donato poteva rivedere davanti agli occhi. Se solo avesse voluto.

Quando ebbe recuperato l’energia e il respiro sufficiente, Donato uscì dall’auto, mise il piede sul grigio pavimento della piazza e gli sembrò di toccare il suolo di un altro pianeta, si erse dritto a due metri dai portici guardandosi intorno, sentì il l’alito bollente di quel posto soffiargli sulla faccia, come una profonda espirazione dopo anni di apnea.

Chiuse gli occhi, quando li riaprì ebbe la precisa consapevolezza di essere tornato laddove era stato l’ultima volta vent’anni prima.

Una fetta di vita riposta in un cassetto, legata stretta per non farla scappare eppure così strana da sembrargli una storia nuova, di una vita sconosciuta, come l’avesse vista in un film o letta in un libro. La storia di uno che, adesso, non sembrava lui.

Donato si guardò intorno, poteva rimanere fermo là e aspettare semplicemente che quel momento passasse, come quando da bambino ti fanno un iniezione e tu stringi i denti e conti i secondi perché sai che è una cosa alla quale non puoi più opporti e puoi solo attendere.

Invece Donato, già che era là, dove non avrebbe mai pensato di tornare, si mosse.

Fece due passi davanti a sé per controllare che ci fossero ancora quei tre gradini dove si sedeva a leggere durante le mattine d’estate. Sempre sui quei tre gradini perché di là gli sembrava passasse un po’ di brezza. Donato si sporse, i tre gradini con la sua pietra scura erano al loro posto, certamente da quell’ultima estate nessuno mai ci si era più seduto sopra. Donato ebbe pure la tentazione di rimettersi là seduto, controllare se da quel punto scorresse ancora quella singolare brezza che tanto amava, nella calma piatta di una mattina d’Agosto.

Quindi Donato fece ancora qualche passo e attraversò il tunnel che dalla piazza conduceva all’incrocio in discesa. La prospettiva infinita del viale chiusa dalla facciata della chiesa, quattrocento metri di strada che quando calava la nebbia diventavano un orizzonte indecifrato e incerto. E la chiesa spariva, rimaneva solo una luce: il faro grande che illuminava l’orologio del campanile con il suo insolito fondo giallo; era quello l’unico chiarore che segnava la direzione. Donato guardò la facciata della chiesa e il campanile in pietra grigia e mattoni, poi si voltò, finalmente, sulla destra, all’angolo dove c’era il bar.

Quando ci arrivò, la prima volta, gli sembrava un posto enorme: dalla strada dietro la grande vetrina si vedeva il banco posto all’ingresso con il piano in marmo bianco a venature grigie, le bottiglie disposte sulla mensola in alto, la macchina del caffè nell’angolo dietro, davanti il registratore di cassa. La saletta con i tavoli, una decina in tutto con una console bassa addossata alla parete, i quattro lampadari anticati, le due finestre in alto da aprire con la leva, i bagni in fondo. E la piccola cucina sul retro, la televisione in equilibrio sugli scaffali, la lavagnetta con i messaggi, il finestrino che dava sulla rampa del garage. Fuori l’insegna grande che prendeva tutto il lato, illuminata da un faro tondo, di luce calda.

Il primo giorno, Donato fu assegnato alla macchina del caffè. Provò due volte il movimento del polso per far cadere la polvere nella manetta e poi per tirarla in su. Dopo aver spinto il pulsante doveva contare fino a quattro per un espresso normale, fino a sei per un lungo. Giusto un paio di secondi per un caffè corto. L’odore del caffè gli era rimasto addosso per molti giorni, a seguire.

Donato guardò bene. Tolse e rimise i suoi occhiali neri.

Il bar non c’era più. La grande vetrina era divisa tra una porta girevole e uno sportello del bancomat. Le luci di una banca riflettevano sul vetro blindato. Donato si avvicinò, diede uno sguardo all’interno, ma vide solo il suo riflesso sulle pareti del metal detector. Non c’era più il posto dove trascorse giorni lunghi di Agosto, in attesa della chiusura per camminare con lei lungo le strade del paese. Passeggiare per il lungo viale, andare oltre il campanile, tra le stradine, a volte pedalando lentamente. Tenersi per mano, mangiare un gelato, guardare le stelle. Perchè questo era.

Il resto era rimasto simile, la casa al piano di sopra era ancora là con le sue persiane verdi, più in giù la sede di un partito politico con la bandiera posta sull’asta diagonale, di fronte il laboratorio di fotografia con stampe di nozze, incorniciate in bella vista.

Che il bar non ci fosse più lo disorientò e lo sorprese. Controllò se ci fosse sempre il marciapiede dove una sera si sedette a pensare quanto fosse strano essere finito fin là, così lontano da casa; dove provò la paura di aver già stabilito tutto. E che forse era troppo presto per decidere, che avrebbe voluto pensarci ancora un po’, ritornare dopo qualche anno. Ma ne erano passati troppi, così tanti che ora la storia non era neanche più la sua e neanche quel posto lo era.

Il marciapiede, come i gradini della piazza, c’era. Almeno le pietre non potevano essersi mosse.

Passarono due ragazzi in bici. Donato gli fece un cenno con la mano come per fermarli. Il più grande dei due tirò dritto, l’altro poggiò il piede per terra e si volse verso Donato.

Scusami, ma non c’era un bar qui all’angolo ?” chiese Donato.

Un bar ?” rispose quello pensandoci “ma molti anni fa ?” si informò.

Molti. Non so. Si, forse molti” rispose Donato

Sette o otto anni fa”. Si immischiò il più grande girandosi tornando sui suoi passi. “Forse anche dieci” concluse guardando quello giovane che forse lo era troppo e neanche se lo ricordava.

Ci fu un lungo secondo di pausa. Donato sentì dentro come una scossa di malinconia, gli salì in gola il sapore del dispiacere; allora contrastò il rimpianto fingendo distacco. Per farlo, cambiò argomento.

E la pizzeria, in cima alla salitella, quella c’è ancora ?” chiese Donato.

Quella si. Sempre aperta. E chi la muove da là !”, risposero loro mentre erano già rimontati in bici.

Donato rimase piantato in mezzo alla strada, di nuovo solo. Avrebbe voluto chiedere delle informazioni pure su delle persone e su di lei. L’orologio del campanile, sul suo strano fondo giallo, segnava le 14 in punto, la campana suonò due volte. Rifletteva la luce pallida tra la foschia, il faro, spento, manco si vedeva.

Ebbe, anche in questa circostanza, la tentazione di sedersi di nuovo sul marciapiede. Poggiarsi là dove pensò che il tempo era ancora tanto e che si poteva tanto riflettere, prima di prendere decisioni. Cioè, forse viaggiare, e poi magari tornare proprio là, scegliere quella periferia del mondo. E restarci.

Ma volse le spalle al marciapiede e a quello che fu il bar e tornò in piazza.

Fermo, poggiato all’auto, Luigi batteva il piede nervoso sul selciato.

Ho incontrato solo due uomini ma non erano di qui. Niente trattorie da quella parte. Tu hai trovato qualcosa ?”.

Donato guardò ancora il tunnel, i balconi con le ringhiere antiche, i tre gradini in pietra e la serranda dell’edicola abbassata.

Qui i ristoranti sono tutti chiusi per ferie, torniamo sulla statale, c’è un paese più grande a quattro chilometri, andiamo là”. E mentre lo diceva già apriva la portiera. Senza voltarsi.

Luigi e Donato tornarono in auto, riaccesero l’aria condizionata alla velocità massima e si rimisero sulla statale. Era caldo quel giorno di Agosto, chiusi nell’abitacolo non sentivano più il vento lento e umido della pianura.

L’orologio con il fondo giallo scomparve nella foschia, e con lui le case.

Lungo la strada, nuovi campanili si avvicinavano.

 

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