“Ogni volta che esco a fare una passeggiata vedo sempre più negozi chiusi (…) D’improvviso, le vetrine vuote, l’insegna scomparsa dalla facciata, mi sconvolgono, come capita con le morti improvvise o le disgrazie inaspettate. (…) E rabbrividisco, contagiato dalla delusione, dal fallimento che mi trasmette quel triste cartello appeso alla vetrina con le parole affittasi o cedesi attività”. Comincia con queste parole un brano di Arturo Perez-Reverte, il più popolare scrittore spagnolo, pubblicato lo scorso 21 Gennaio su “La lettura” dal titolo “La mia Spagna senza più sogni”, un grido di dolore e di accusa per la scomparsa dei negozi, soffocati dalla crisi generata dall’incapacità di “politici farabutti e sindacalisti corrotti”. La chiusura di un negozio, al di là dei demeriti del conduttore, è sempre una sconfitta per la comunità. E’ l’infrangersi di aspettative e speranze, un illusione che fa i conti con la dura faccia della realtà, un evento che in alcuni casi espone una famiglia all’indigenza. Ci sono attività che inspessiscono il rapporto tra la città delle abitazioni e la città vissuta, tra ciò che sono le necessità primarie di un insediamento umano e ciò che fa di questo una cittadina vera e propria con i suoi legami e i suoi rapporti sociali. Le vie di comunicazione, il parcheggio, lo spazio pubblico, la chiesa, la scuola, rappresentano lo scheletro di una struttura che tuttavia non ha nessun tessuto muscolare se non è tenuto insieme dalla funzione dello scambio commerciale tra gli uomini. Le periferie delle città, o i quartieri, paesi anch’essi, formatisi sull’idea dell’alloggio-dormitorio, attraversate da larghe strade e con comodissimi parcheggi, hanno fallito l’obiettivo di diventare parti di città per l’assoluta mancanza delle occasioni di incontro tra le persone generato dall’iniziativa privata, dall’imprenditorialità, dalla capacità di attrarre l’attenzione intorno ad un progetto. Da quella funzione prettamente sociale che è in massima parte rappresentata dall’attività commerciale in sè. Non è un caso che un segnale della salute di una città si controlli attraverso l’apertura di nuovi negozi. Così come è sintomatico che i mercati settimanali, che ancora visitano le nostre cittadine, siano sempre così frequentati, spingendo fuori dalle case persone di solito poco inclini alla socialità. La deformazione di questo concetto, nuova frontiera della città contemporanea, è quella rappresentata dal centro commerciale come elemento architettonico a sé stante. Piccola cittadella dove ci si trasferisce in massa nei “fine settimana”, così come un tempo si usciva in strada, si andava al mercato, sotto i portici o in piazza a raccontarsi le storie di vita. Il centro commerciale con le sue botteghe, contenitori delle attività più variegate, che tengono insieme funzioni che la città espelle: il cinema, i ristoranti, la ludoteca, la biblioteca, gallerie d’arte, persino il teatro. Perez-Revert, nella Spagna del post-boom, assiste rabbioso alla morte dello spirito commerciale causata dalla crisi economica; in altri luoghi è la criminalità a spegnere le insegne e a consigliarne il trasloco. In altri frangenti le avverse condizioni climatiche o la lontananza da qualsiasi direttiva turistica o di traffico sconsigliano lo sviluppo commerciale. Quando, nonostante l’assenza di questi ostacoli, cioè quando in un luogo non piegato dalla crisi economica, senza criminalità, in un centro turistico graziato da un clima mite praticamente per dodici mesi all’anno, quando in un luogo siffatto, dicevo, le saracinesche dei negozi chiudono una ad una, riducendo il paesaggio un panorama spettrale, bisognerebbe interrogarsi più profondamente sui motivi che spingono una cittadina a ridursi in questo stato comatoso. Questo, più ancora di altre problematiche, è il fenomeno che testimonia la profonda decadenza sociale dei nostri paesi; la loro lenta agonia, che li porta a spopolarsi della popolazione attiva e a spogliarsi di idee, sogni ed iniziative. Che alimenta ed incoraggia l’emigrazione giovanile, aumenta l’invidia sociale ed il disinteresse per il bene pubblico. Ma di questo nessuno se ne occupa, men che meno la politica.
Le nostre cittadine e le vetrine vuote
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