L’ARCHITETTO NORMODOTATO

visitamilitareAlla visita per diventare architetto, la commissione, dopo una serie di analisi mi inserì nella lunga fila dei “normodotati”. Avevo 26 anni, 9/10 di vista, 95 di torace e taglia 48 di pantaloni; non fu neppure indispensabile spogliarsi nudo, tanto certe cose si vedono subito, anche da vestito. Altri sono i fattori che fanno di un architetto un normodotato.

Ci furono anche un discreto numero di architetti dichiarati superdotati ai quali, mi dissero, venne risparmiata molta della procedura standard. Degli architetti superdotati si persero immediatamente le tracce: entravano senza bussare laddove gli altri neanche facevano anticamera. Mimetizzandosi perfettamente tra primari, manager e politici con portafoglio.

In una cameretta meno in vista vennero subito spediti gli architetti minidotati, in realtà, in un momento di sincera autocritica, furono loro stessi a prendere atto del loro scarso equipaggiamento e a rinunciare a sottoporsi ad ulteriori esami.

Poi ci furono quelli che sbagliarono stanza, confondendosi in categorie che non gli appartenevano. Ai voglia a spiegargli che non si tratta solo di differenze fisiche o psicologiche, a volte neppure intellettuali.

In architettura, come nella vita, la dotazione produce un naturale senso di superiorità o di inferiorità, che si vive come ogni altro complesso che ci accompagna dalla culla alla bara. Combattendolo e/o ignorandolo. Vale per tutti: uomini, donne e indecisi.

Essendo un normodotato, finì in uno stanzone molto affollato, eravamo in molti e simili. Alla fine ci fu una specie di appello, finché venimmo liberati e ci disperdemmo per il mondo. Ma prima a noi tutti  normodotati venne dato un timbro, leggero ed in plastica, raccomandandoci di usarlo con cautela. Ai superdotati, mi dissero, pure venne dato un timbro, ma si trattava di un timbro più grande, pesantissimo, in bronzo, chiuso in un astuccio placcato oro. Ai minidotati il timbro non fu dato, ad alcuni che ne fecero esplicita richiesta fu concesso di dargli uno sguardo; qualche impavido riuscì comunque a prenderlo, ma solo per conservarlo in un cassetto di casa, come una specie di reliquia.

A quel punto, la strada degli architetti diversamente dotati si divise. I superdotati avviarono grandi attività, anzi, forse già le avevano prima; cioè le avevano i padri, gli zii, i nonni. Altri superdotati passarono direttamente per la stanza di un Sindaco o di un assessore regionale, si accomodarono là e da là non si sono più mossi. Altri assunsero qualche normodotato (pagandolo poco e male) che, seduti, comandano da una poltrona in pelle umana dietro una scrivania in legno di noce chiaro sulla quale vi è adagiato un MAC, che però non sanno usare.

I minidotati hanno immediatamente fatto richiesta di supplenza a scuola, aperto un negozio di mobili o di design fatto a mano. Altri, più intraprendenti, hanno imparato a memoria 100 libri da 1000 pagine l’uno ed ora lavorano in quegli uffici dove si vendicano con tutti i normodotati (con i superdotati no: non possono) che, purtroppo, hanno sempre bisogno di loro.

Per i normodotati l’esistenza è variegata: piccoli studi, progetti gratis, sopralluoghi di vigili, catasto, cantieri irraggiungibili, integrazioni venite male, SCIA, CILA, CIL e AULIN. Cartucce che finiscono nel momento sbagliato, catasto, crediti mai riscossi e crediti formativi da accumulare, inarcassa da saldare, un’altra integrazione, connessione lenta, email, catasto, PDC, PUT, PTCP e Neocibalgina. Il lato positivo della vita dell’architetto normodotato è che non è mai noiosa.

Una notte ho sognato di diventare un architetto superdotato. Ingerivo una scatola di Viagra e così Domus mi dedicava la copertina. O forse era Playmen.

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