Oramai i tempi sono maturi per affrontare l’argomento dei gay nel mondo dell’architettura. Secondo una recente statistica la professione dell’architetto è al terzo posto per percentuali di praticanti gay, dietro solo allo stilista e allo scenografo e a pari merito con il commesso del negozio di scarpe. Invece tra gli studenti delle facoltà universitarie, “Architettura” è nettamente prima e lo rimarrà almeno fino a quando non inaugureranno il corso di laurea in wedding planner.
Per tanti anni, a causa delle discriminazioni, l’architetto gay ha preferito restare tra le quattro mura delle facoltà universitarie, in dipartimenti tanto appartati quanto ben ordinati, specializzandosi in discipline molto specifiche quali “scelta e disposizione della carta da parati”, “sagomatura della controsoffittatura in cartongesso” e “tecnica della sospensione delle tende oscuranti” ecc… Inoltre le leggi e la cultura di questo paese non hanno fatto molto per aiutarli, a puro titolo di esempio si è calcolato che la canzone di Povia al Sanremo del 2009 abbia rallentato del 30% il processo di integrazione dei gay nel mondo del lavoro. A causa di questa diffusa ignoranza, fino a qualche anno fa l’architetto gay raramente si produceva nell’oramai tradizionale “coming out” pubblico; la ragione principale era il timore delle scorrettissime battute dei manovali che storicamente sono tra le categorie più omofobe della società civile contemporanea.
Si stima che 5 muratori in un ambiente di 10 mq, in soli 20 minuti possono produrre un quantitativo di omofobia pari a quello prodotto nello stesso spazio e tempo da 200 leghisti, 50 seguaci di Giovanardi e 1 Donald Trump messi insieme. Molti architetti gay, scoraggiati dalla tenacia dei luoghi comuni ma forti degli studi effettuati, si sono riciclati in altri mestieri, spesso nel mondo dello spettacolo: sono quindi diventati manager, cantanti, vallette opuure scenografi, appunto. Gli sprovvisti di talento artistico sono semplicemente emigrati, in un paese dalla mentalità più aperta della nostra, ovvero quasi tutti.
Si presume che, per anni, per consentire agli architetti gay di esercitare la professione, sia esistita una lobby che selezionava committenti, appalti e bandi pubblici a scapito dei professionisti etero, un po’ come le cassiere nel supermercato de “Le fate ignoranti”. Di questa attività sotterranea però, a parte alcuni piccoli centri abitati, semideserti ed isolati, con le case interamente dipinte di rosa e fucsia, non vi sono prove certe.
Tuttavia ora le cose stanno cambiando e da quando Fuksas è andato in tv con i calzini arancione, si può tranquillamente affermare che l’architetto gay non rappresenta più un problema per il mondo moderno, almeno non quanto il risvoltino ai pantaloni e la guida dei possessori di smart.
Per chiarezza va detto che un architetto gay non è distinguibile da un architetto etero, lo dico per i più agnostici, inutile soffermarsi sull’abbigliamento o cercare qualche filo di trucco, vano è anche soffermarsi sulla camminata o la pettinatura; l’architetto gay può tradirsi solo con l’uso eccessivo di alcuni aggettivi quali: adorabile, straordinario, meraviglioso ma soprattutto, carino.
Se si esamina con un attimo di serenità la questione, si può tranquillamente affermare che l’architetto gay, rispetto ai suoi colleghi etero, possegga alcuni innegabili vantaggi. Innanzitutto sia la Domenica pomeriggio che negli infrasettimanali di campionato di calcio o Champions League, è certamente reperibile per eventuali clienti o fornitori in difficoltà, anzi nel caso abbia molto da lavorare, può restare tranquillamente allo studio, agevolandosi sulle pratiche da consegnare. Vale lo stesso per le partite di calcetto del Giovedi e le interminabili discussioni sulla moviola; inoltre non avere argomenti di conversazione comuni con i manovali consente all’architetto gay un gran risparmio di tempo nei sopralluoghi sul cantiere. Al netto di tutto si stima che l’architetto gay riesca, senza nessuna rinuncia e in modo assolutamente naturale, a recuperare circa 220 ore all’anno che può utilizzare come meglio preferisce.
Un altro privilegio è che quando una coppia di clienti coniugi litiga sulla disposizione della cucina o dei mobili della camera da letto, l’architetto gay è in grado di comprendere le ragioni di entrambi; questo avviene pure durante le lunghissime contrattazioni sulla posizione della cabina armadio o nell’annosa trattativa tra la doccia e la vasca.
L’architetto gay inoltre è sempre informato su alcuni aspetti della professione che in genere l’architetto etero ignora, tipo: quale colore va di moda questa primavera, l’altezza precisa del cubo per ballare in discoteca e la dimensione precisa della scarpiera. Ma l’architetto gay ha anche un altro tipo di approccio, più elaborato, con il committente: può spostare la conversazione facilmente da un argomento assolutamente tecnico al tema dei diritti civili come un fervente attivista del partito radicale, suscitando sempre grande impressione tra i presenti.
Quello che oggi manca in Italia è senza dubbio un architetto gay che sia il simbolo di queste battaglie civili e che sdogani definitivamente la categoria. Scomparso da anni Philip Johnson (che comunque era statunitense), attualmente bisogna ancora improvvisare, accontentandosi degli studi in geologia di Cecchi Paone, i consigli di arredo di Enzo Miccio e, dal punto di vista puramente filosofico, del pensiero critico di Cristiano Malgioglio, che comunque ha una sua dignità.
L’ultima virtù, importantissima, che gli architetti gay devono possedere (come tutte le persone per le quali la vita è più complicata), è l’autoironia, che gli consente di superare mille ostacoli e di leggere tutto quest’articolo.
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