L’altro giorno, una signora che tra una telefonata e l’altra, credo sia (ancora) il ministro della giustizia, ha detto che in Italia ci sono 9 milioni di processi pendenti tra civile e penale. Concentriamoci sul “penale”, come avrebbe detto il mio vecchio professore di diritto. Diciamo che, dividendo a metà la cifra, ci sono 4,5 milioni di processi penali in corso. Ho guardato un pò le statistiche e ho scoperto che, in media, per ogni processo ci sono almeno 2.5 imputati. Quindi ci sono circa 11 milioni di imputati in processi penali, considerando una quota del 10% di pluri-imputati, possiamo dire che circa 10 milioni di italiani, ad oggi, sono imputati. Ora, siccome dalle più recenti stime, in Italia c’è un architetto ogni 500 abitanti, se ne deduce che 20000 architetti italiani sono imputati in procedimenti penali.
Questo numero così elevato non deve stupire, si sa che in Italia chi lavora, ma anche chi semplicemente prova a lavorare, nel privato o a contatto con enti pubblici, prima o poi un qualche problema con la giustizia lo avrà, tutto questo indipendentemente dal suo grado di onestà. Poniamo ancora che questi processi per qualche imprevedibile motivo giungano a sentenza definitiva e che di questi 20000 architetti almeno la metà vengano condannati, circostanza che, si sa, in Italia può avvenire a prescindere dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato; se capitasse avremmo 10000 architetti sottoposti ad una pena, probabilmente detentiva, poiché i reati che coinvolgono gli architetti sono sempre puniti con grande severità (distruzione del paesaggio, abuso d’ufficio, frodi varie ecc.). Ebbene bisogna dirlo con chiarezza: questo sarebbe un vero dramma sociale perché l’architetto non ha la struttura fisica per reggere le condizioni di vita del carcere, per questo motivo si renderebbe necessario l’affidamento a qualche tipo di servizio sociale.
Così accanto alle PPAL (Palestre Per l’Architettura Locale, vedi il brano “La statalizzazione dell’architetto”) bisognerebbe istituire anche delle comunità di recupero per architetti che hanno sbagliato e vogliono redimersi. Niente paura, la soluzione già c’è: sono le cosiddette CRAC (Camerate di Recupero Architetti Condannati). Le CRAC sarebbero realizzate all’interno di grandi studi d’architettura che si farebbero garanti del reintegro sociale dell’architetto, sponsorizzandone l’assistenza e ricavandone in cambio manovalanza a bassissimo costo. Per l’architetto, abituato, specie nei primi anni di lavoro, a svolgere mansioni di natura volontaria in orari no-stop, l’impatto sarebbe assolutamente morbido, quasi naturale.
La camerata, ovvero il luogo di detenzione ed espiazione della pena, verrebbe creata direttamente negli studi di cui sopra, ricavando dei mini alloggi con divisori in cartongesso, metodo già ampiamente sperimentato nelle fabbriche dei cinesi. La giornata dell’architetto alle prese con il CRAC sarebbe completamente votata al lavoro, le pause pranzo sarebbero dedicate alla visione di vecchi filmati di RaiSatArt o alle toccanti testimonianze dei pochi fortunati pensionati inarcassa viventi. Di tanto in tanto i rei-architetti riceverebbero la visita degli assistenti sociali del CRAC: anziani professionisti, che avendo vissuto il boom degli anni sessanta, narrano i loro ricordi su quella pratica così affascinante quanto sconosciuta agli architetti di oggi, cioè: costruire. Per il tempo libero ci sarebbero anche i laboratori per le attività manuali, cioè i cantieri in corso, dove il reo-architetto potrebbe partecipare direttamente alla vita della fabbrica impastando il cemento, piegando i ferri o stuccando il rivestimento dei bagni. Viceversa i rei-architetti con difficoltà fisiche, motorie, mutilati o con handicap fisici possono recarsi in sala d’attesa a rileggere i classici, vecchie riviste ingiallite o a ripassare il codice degli appalti pubblici
Nei week-end sarebbero previste gite premio per il collaudo di viadotti o di ponteggi particolarmente rischiosi, dove i condannati potrebbero offrirsi anche come cavie, in cambio di sconti di pena. Il CRAC offrirebbe anche un percorso riabilitativo per architetti che vogliono smettere e, una volta usciti, dedicarsi ad altro; per lo stesso motivo sono previsti anche incontri con gli studenti, dove il reo-architetto può raccontare la sua drammatica esperienza cercando di indirizzare i giovani inconsapevoli verso un futuro meno doloroso. Dopo qualche tempo, per buona condotta, il reo-architetto potrebbe anche essere affidato ai servizi esterni, dotato di un apposito braccialetto elettronico, potrebbe recarsi al catasto, a fare la fila alla posta o più semplicemente a fare la spesa per il resto dei detenuti. Così concepito il CRAC avrebbe sull’architetto un importante effetto motivazionale, formativo, nonché terapeutico.
Viviamo tempi complicati e dinanzi ad una così ampia problematica di tipo giudiziario, lavorativo e professionale, è chiaro che il CRAC risolverebbe molti dei problemi degli architetti.
Follow me on twitter:@chrideiuliis