Questa storia avrebbe dovuta raccontarcela Jacopo, il capitano del gozzo che ci ha accompagnato nell’escursione intorno al capo Carbonara, questa mattina.
Jacopo è un eccezionale guidatore di gozzo, lo dirige utilizzando sia gli arti superiori che inferiori, in particolare il piede sinistro che gli serve per decidere la velocità della barca mentre con la mano destra tiene la barra del timone e con l’altra mano si sorregge ai cavi tesi tra la tenda e lo scafo, per non cadere.
Jacopo è giovane ma ha l’aria di chi la sa lunga, fuma marlboro rosse dure, alla media di una ogni 4 miglia di navigazione. E’ insensibile al pianto dei bambini e non tollera che non si sappia scendere dalla scaletta per tuffarsi. Al largo dell’isola di Cavoli, punta estrema ad est della Sardegna, Jacopo ha accennato la storia del guardiano del faro, poche parole, con una punta di commozione subita respinta da un profondo tiro di sigaretta.
“Qui viveva Armando”, ci ha detto indicando il faro che sovrastava una piccola costruzione a due piani con una torretta verso sud, “è stato l’ultimo guardiano del faro. Lo è stato per 42 anni, fino al 2005, poi è stato sostituito da un sistema elettronico che accende il faro con un timer. Un piccolo computer alimentato da pannelli solari” e mentre lo diceva il gozzo aggirava il capo a sud e tra la poca vegetazione spuntavano una dozzina di pannelli color blu indaco.
“Armando era una persona molto speciale”. E qui Jacopo ha tirato su nicotina a sufficienza per narcotizzarsi l’anima e far evaporare quella piccola lacrima che, tra il maestrale che soffiava a circa 9 nodi, già faceva fatica a venir giù.
Tuttavia, io la storia di Armando la conosco. Non chiedetemi perché, la conosco e basta.
Armando amò il mare da quando era un ragazzino, per questo diventò marinaio e si arruolò giovanissimo per il secondo conflitto mondiale. Era sulla corazzata “Roma” agli ordini dell’ammiraglio Bergamini, quando, dopo l’armistizio, nel tentativo di unirsi alle forze alleate, fu affondata dalle bombe tedesche la sera del 9 Settembre del 1943. Armando che era di guardia, non fece in tempo a dare l’allarme a tutti, ma dopo la prima granata cadde in mare e fu tra i pochi a salvarsi. Tratto in salvo da una fregata inglese, rimase prigioniero fino al 1945. Tornato a casa, ancora ventiseienne, Armando ricevette una medaglia al merito ma giurò che non avrebbe mai messo più piede su una barca. Era rimasto orfano e senza neanche un parente, così cercò un posto da muratore, il padre prima della guerra gli aveva insegnato a fare i muri a secco. Sopravvisse qualche anno, finché al suo padrone venne commissionato di riparare la casa del guardiano del faro, Armando provò a rifiutare perché anche quella traversata di venti minuti lo spaventava. La sera prima si bevette un litro e mezzo di rosso e andò a dormire, il giorno dopo alle cinque del mattino, ancora brillo e dormiente lo caricarono su un battello insieme ad altri quattro giovani muratori. Armando e i suoi colleghi lavorarono un anno intero senza sosta.
Nel frattempo il vecchio Geremia, che abitava nel faro, lo aveva preso in simpatia. Geremia era stato un bersagliere, fervente monarchico, ma a Caporetto aveva battuto in ritirata. Non aveva ricevuto medaglie ed ammirava tanto Armando, tanto da chiedergli di raccontargli le sue battaglie nel mediterraneo. Così la sera, Armando e Geremia, si sedevano sul bordo della rocca e guardavano l’infinito. Armando gli raccontò tutte le battaglie e quando le ebbe finite, gli e le raccontò daccapo; quando furono finite ancora prese ad inventarne di nuove, mai accadute. Era il Gennaio del 1950, quando i lavori furono conclusi, Armando e Geremia erano diventati come padre e figlio. Il giorno prima della ripartenza Armando decise di sbronzarsi di nuovo, ma Geremia, per non farlo andar via, gli nascose tutto il vino. Quando fu il momento di tornare sul continente Armando non ebbe il coraggio e rimase con Geremia. Da quel giorno Armando non tornò mai più indietro.
Geremia morì nell’Agosto del 1963, sul testamento chiese che fosse Armando ad occuparsi del faro.
D’altronde non ci furono altre richieste, quindi Armando venne assunto a tempo indeterminato.
In quarantadue anni Armando ebbe il tempo di sistemare tutte le stanze dell’edificio e di costruire una panca in pietra sul terrazzo della rocca da dove, ogni sera, scrutava l’orizzonte, fumando nazionali senza filtro.
Una volta a settimana scendeva alla scogliera a prendere il pacco che gli portavano i militari della marina. Armando li accoglieva sempre con il saluto d’ordinanza e con un “grazie, no”, quando gli chiedevano se volesse tornare un po’ sulla terra ferma e farsi dare il cambio almeno qualche giorno.
Di tanto in tanto, quando il mare era in bufera, nella piccola rada sul fianco dell’isola, si rifugiavano piccole imbarcazioni per sfuggire alla furia delle onde. Armando ne sentiva l’arrivo, portava giù coperte e caffè caldo. Offriva sigarette e leggende di guerra, come fossero caramelle.
Alle fine del secolo, arrivarono quattro ingegneri, li portarono su proprio quelli della marina militare. Il capitano, un uomo di Barletta, alto e calvo, prese da parte Armando e gli spiegò che tra poco avrebbe dovuto lasciare il faro, perché avrebbero messo un computer a fare il suo lavoro.
Armando rispose con “fate pure, ma io da qui non me ne vado”.
E infatti, il computer arrivò, ma lui non se ne andò. Provarono a convincerlo ma Armando rispondeva che nessun computer poteva fare quello che faceva lui.
E quando lo diceva guardava l’orizzonte.
Per tutto quel tempo ad Armando era rimasto dentro il rimorso di non aver dato in tempo l’allarme quel giorno di Settembre del 1943 e così tutte le sere sperava arrivasse qualche aereo ad attaccare o una nave in difficoltà, così lui avrebbe potuto dare il segnale e salvare tutti. Salvarsi da un rimpianto: questo un computer non poteva farlo di certo.
Ma in 42 anni non arrivò nessun aereo e nessuna nave a cercare speranza.
Però ogni giorno passa il gozzo di Jacopo che, guardando in sù verso il faro, e ricordando Armando, si trattiene una lacrima.
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Il faro è diventato automatico dagli anni ’70, dopo che l’ultimo guardiano del faro, Gustavo, morì tentando di rientrare a terra perché il figlio stava male. Da allora il faro ebbe un breve periodo di inattività con un incidente per naufragio di una nave di piccole dimensioni incagliatasi per via del faro non operativo. Poi divenne automatico, alimentato prima da un sistema ad alimentazione combustibile, poi a batterie solari a fine anni 90. Dagli anni 70 ogni estate, l’isola è stata sede dell’Università di Cagliari per docenti e studenti di Scienze Naturali per rilevamenti sulla evoluzione vegetale nel territorio.
Non entrerò in ulteriori approfondimenti, questa storia che ho letto è campata per aria e priva di ogni verità.
Chi ti scrive questo commento è figlio di uno di quei docenti che ha vissuto l’esperienza delle classi di studenti universitari per diversi anni e che ha conosciuto la vera storia di quegli anni.
Il mio è chiaramente un racconto di fantasia.