LA SIGNORINA DELLE CROCCHETTE

A causa del mio amore per la frittura ed in particolare per le patate, trascorro periodicamente del tempo in una piccola rosticceria che si trova nell’angolo di una cortina edilizia costruita negli anni settanta.

Amo questo piccolo locale composto da un retrobottega con forno ed una piccola stanza dove emerge una vetrina, un piccolo banco e giusto due tavoli, con una lunga mensola per la consumazione appoggiata al muro laterale. Dinanzi alla quale si drizzano tre vecchi sgabelli in legno, dipinti di azzurro.

A sera, sulla via del ritorno, solitamente di martedì o di giovedì, a volte in entrambi i casi, alla vista del ponte ferroviario rallento fino ad accostare, lungo il viale, sulla destra, subito prima del sottopasso. Discendo nel marciapiede deserto, attraverso sulle strisce pedonali e oltrepasso la porta vetrata dalla quale fuoriesce una luce arancione identica a quella che illumina l’insegna in plexiglass, alla quale mancano due lettere: la prima e l’ultima.

“Osticceri”. Così si legge. E sotto, più piccolo, il nome e il cognome del proprietario. Certamente il padre di lei: della signorina delle crocchette.

Mi accoglie puntandomi come fossi trasparente e ribattendo il mio “buonasera” con un sorriso stanco. Lo schiude appena da sotto un paio di occhialoni dalla montatura scura e spessa incollati ad un naso piccolo e ovale. Da dietro quelle lenti mi spia con occhi da civetta, poggiando i gomiti sul piccolo banco e puntellando il mento con le nocche serrate nei pugni.

Io entro avviandomi verso la vetrina dove svernano pezzi rari e di nessun fascino. Tranci di pizza e arancini ovoidali tra frittatine di, ipotizzo, alghe. Li esamino senza nessun entusiasmo. Lo faccio solo per rispettare un copione rodato.

Infatti la signorina delle crocchette non mi bada, continua a fissare la porta vetrata e così resterebbe per ore se il padre non facesse irruzione.

Il padre è un uomo basso, baffuto, con una profondissima riga dei capelli tirata da un lato a coprire una grave calvizie frontale. Urla, batte le mani, impreca. La signorina delle crocchette si desta, rialza il capo e, senza mutare espressione, svanisce nel retro. Passano alcuni secondi e ricompare con una teglia, un piatto, un cartone per pizza fumante e la solita espressione avvilita.

Io rimango in attesa che torni l’ordine consueto, mi posiziono davanti alla cassa e ordino l’unica cosa che ritengo commestibile e nella quantità che credo necessaria: sei crocchette.

La signorina mi guarda intrigata, come se quella istanza le fosse oscura, poi rientra in cucina e riporta la richiesta con un filo di voce. Nel frattempo io mi appoggio su uno degli sgabelli e ne attendo il ritorno.

Elaboro considerazioni estetiche: gli sgabelli andrebbero riverniciati.

La signorina ricompare e nel brevissimo spazio temporale che trascorre prima che si ricomponga, osservo la sua felpa informe, i pantaloni larghi sportivi con le tasche sulle cosce e le scarpe da ginnastica da uomo, di un colore indefinibile tra il blu e il grigio. Si tratta di pochi secondi, quelli utili a farle riprendere la posa solita.

Elaboro considerazioni anatomiche: non ha un corpo la signorina delle crocchette!. Non ha una forma, niente seni, nessun fianco né fondoschiena, un mammifero indefinito di genere solo presunto. Per questo non ha una vita sessuale, la signorina, né sociale. Non aspetta nessuno, nessuno che la vada a trovare, che le dia del “tu” o che le telefoni. Infatti la signorina delle crocchette non ha un telefono, a parte quello fisso della rosticceria, che squilla raramente, sempre per ordinazioni alle quali lei risponde snocciolando tempi di attesa: “cinque minuti, dieci minuti. Massimo quindici”. In un caso la sentii cambiare tono di voce per dire: “mi spiace, ha sbagliato numero”.

Non ha un’altra vita al di fuori di questa, la signorina delle crocchette. Quella rinchiusa in queste pareti tinteggiate di giallo, che puzzano di fritto come i suoi capelli raccolti col “tuppo”. Solo una volta la vidi nei paraggi trascinare sacchi di farina, confezioni di pelati, birre. Svelta verso l’obiettivo, non si distrasse neanche (e mi parve incredibile) dinanzi alla grande vetrina di intimo femminile che precede la sua.

Non ha un fidanzato, come potrebbe? Quale tempo gli dedicherebbe? E poi il padre non sarebbe d’accordo. Lo tratterebbe male, lo scoraggerebbe.

Fossi più giovane le direi: “Scappa, salvati”.

Come si è certamente salvata la madre, scappando. O morendo.

Nel breve tempo che rimaniamo soli nessuno di noi osa dire una sola parola.Lo sfrigolio leggero della friggitrice copre appena i nostri respiri. Di scappare non glielo dico, il copione non prevede colpi di scena.

Elaboro considerazioni sociologiche: quante signorine delle crocchette ci sono nel mondo!.

Finché, tra le sue mani, spunta un sacchetto di carta, unto sui bordi, che mi consegna senza nessuna emozione. Io neppure controllo il contenuto, poggio gli spicci sul banco che lei lentamente raccoglie senza scomporsi.

Al mio “Grazie, buonasera” attendo che risponda qualcosa di diverso, ma è un qualcosa che non arriva mai.

Sciolgo l’imbarazzo riprendendo la porta vetrata, e là mi sento di nuovo riattraversato dal suo sguardo che mi perfora fino a raggiungere il marciapiede opposto.

Naturalmente deserto.

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