In questi giorni ricade il trentennale della riparazione della mia radio ad opera di mio zio.
Capitò questo: a casa da me, per molti anni avevamo una Radiomarelli nera, con gli altoparlanti rivestiti in tessuto e le manopole in acciaio lucido. Era posizionata sul camino con l’antenna già tirata su, nella posizione giusta.
Finchè un giorno, una domenica pomeriggio di campionato, la radio si ammutolì; così chiesi a mio zio se poteva aggiustarla. Mio zio, trent’anni fa, aveva gli anni che ho io adesso, meno di 40. Zio, prese il giravite, il saldatore e il tester e dopo dieci minuti la vecchia Radiomarelli tornò a cantare..
Mio zio non era uno che aveva studiato particolarmente nella vita, aveva messo su un negozio di elettronica ed elettrodomestici e aveva imparato in qualche modo a mettere le mani nei circuiti stampati. Riparava anche i televisori, il forno, il citofono e tutto quello che aveva a che fare con la corrente elettrica.
Già trent’anni fa, mio zio era uno dei più utili in famiglia. Mio padre che aveva studiato, ed era geometra, ai miei occhi di novenne, sembrava, praticamente piuttosto inutile. Già allora, in tempi in cui non ne eravamo ancora invasi, il maneggio della tecnologia, più che la sua conoscenza teorica, era fondamentale.
Oggi, ancora più di trent’anni fa, la pura conoscenza rivela in fondo una fragile consistenza, un’inutilità di base, dinanzi all’essenzialità del saper fare. E tutte le volte mi domando se, adesso, ad un figlio in età scolare, non potendone misurare il talento, gli consiglierei di raggiungere un grado di istruzione superiore, piuttosto che imparare subito a saper fare qualcosa.
In un tempo controllato dall’”uomo economico”, la conoscenza teorica, che per sua stessa natura non è direttamente connessa alla produzione del guadagno, è andata ad occupare un posto di assoluta marginalità nella scala sociale. Gran parte della spinta gli e l’ha impartita proprio la tecnologia: hacker, imprenditori start-uppisti, bimbi prodigio sono quelli che occupano i posti di potere, che quotano in borsa società multimiliardarie. D’altronde già Aristotele, nella sua “Metafisica”, lo aveva detto che la conoscenza ai suoi livelli più alti non è una scienza produttiva e che questa poteva considerarsi libera proprio in virtù del suo rifiuto ad essere schiava dell’utile. Tuttavia i filosofi, ai tempi di Aristotele, erano tenuti in grande considerazione.
Viceversa, oggi la professione intellettuale è finita esiliata in una terra di confine, dove sopravvive nutrendosi della sua stessa inconsistenza. Gli intellettuali si muovono così in un loro mondo, ovattato ed economicamente povero. Si ritrovano in convegni nei quali discutono di cose che non interessano a nessuno se non a loro, producono saggi e scrivono libri per loro stessi ed agitano discussioni alle quali solo la loro tribù partecipa. Anche gli architetti, nonostante l’architettura sia tra le arti quella con maggiori effetti pratici, sono finiti in questo territorio; puntualmente superati da chi l’architettura (forse sarebbe meglio dire l’edilizia) la deve poi fare concretamente, poco ascoltati, spesso sorpassati nelle decisioni cruciali. Gli architetti oggi sono costretti a spendere la maggior parte del loro tempo ad occuparsi della parte sostanzialmente inutile dell’impegno. Alla loro conoscenza viene assegnato il compito di produrre le inutili procedure che avvolgono la realtà, mentre i politici disegnano le città, gli operai impastano il cemento e gli anziani dirigono i lavori, come al solito.
Tutto questo studio appassionato della storia, la lettura dei classici, la comprensione delle teorie, il significato degli elementi, viene scavalcato e reso marginale dall’applicazione corrente della pratica. E’ questa la sconfitta vera della nostra professione, più di un condono edilizio o di un crollo a Pompei.
P.S.: In ogni caso ad un mio figlio, al di là del talento, direi di studiare perché la conoscenza rende liberi. E la libertà genera felicità anche se non produce denaro e nessuno sa più cosa farsene.
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