LA LEVA ARCHITETTONICA DEL ’75

pizzettaC’era ancora il sole sui tetti dei palazzi in costruzione.

Eravamo giovani, con i capelli lunghi e le vertebre tutte allineate precisamente.

Giocavamo con il pallone di gomma leggera, con i piedi, ma anche con le mani. I pantaloni ci andavano tutti larghi. La differenza tra l’anno in corso e il nostro di nascita dava risultati risibili, senza raggiungere le due decine.

Fu un’ottima leva quella architettonica del ’75. La prima selezionata con un test attitudinale, non fisico ahimè (quello sarebbe servito dopo) ma intellettuale. A quel tempo già non vi era più posto per tutti: lo chiamarono “Numero chiuso”. Come se esistessero pure numeri aperti, spalancati o intasati. Un numero è solo un numero, puro spirito, non ci puoi mettere un aggettivo accanto.

Noi della leva in partenza lo apprendemmo a Luglio, compilando moduli, tra un tuffo ed una cotta da diciottenni. Erano gli anni di Tangentopoli; ma non sapevamo nulla della politica, prima era tutto DC, PSI, PCI, poi venne la magistratura a prendersi il paese (e ancora non l’ha mollato) erano i giorni del “si salvi chi può” generale. L’8 Settembre degli scheletri negli armadi.

Silenziosamente, ma inesorabilmente, l’architettura aveva già smesso di essere una nobile arte sociale, ci raccontarono che negli anni ruggenti fu utile a tutti, ora quegli stessi ne prendevano le distanze. Forse perciò non c’era più spazio per tutti. Noi arruolati non fummo degli eletti, piuttosto delle cavie.

All’addestramento del primo anno facemmo formazione seduti per terra in camerate strapiene. Ministeri, cinema, chiese abbandonate. Trascorrevamo ore, stretti, in quattro in un metro quadro, firmando moduli di presenze obbligatorie o firmandoli a turno se proprio non potevamo restare. Viaggiavamo su autostrade ove vi erano interminabili lavori teoricamente in corso, tra cortei di disoccupati, respingendo l’assalto discreto di venditori di fazzolettini, cantanti naif, poeti di strada o semplici elemosinanti.

Quando fu chiaro che non mollavamo, introdussero il concetto di “Sbarramento”. Lo aggirammo. Con merito o furbamente, non importa; non è mica da questi particolari che si giudica un architetto. Un architetto lo vedi da altro: dal coraggio e dalla fantasia ad esempio.

Intanto ci cibavano di pizzette piegate a quattro e chiuse “a libro”, avvolte in carta dura ed unta. Erano i nostri spinaci di Braccio di Ferro, la nostra naftalina per Eta Beta. Imparammo a mangiarle senza macchiarci. Fu forse quello il segnale che eravamo diventati invincibili ?.

Intanto il sole sui tetti dei palazzi in costruzione era già sparito dietro le nuvole. Spesse nuvole invernali da dove, inopportunamente, piovevano centomila millimetri di acqua gelata, penetrando fin dentro i nostri tubi a tracolla. E una volta dentro, gocciolando sui nostri lucidi disegnati a china. O su modellini in cartone pressato, rovinandoli irrimediabilmente. Quando passammo al computer, smise improvvisamente di piovere e iniziò a fare caldo, caldissimo.

Furono innumerevoli esercitazioni, infinite correzioni e poi esami. Tanti esami. Domande secche come calci di rigore da tirare ogni volta e guai ad averne paura. Il nostro miglior progetto in un laboratorio semideserto, ricordato come il goal più bello. “L’architetto si farà” dissero al congedo della tesi ma nessuno ci fece caso. Né noi né i nostri genitori commossi, gli amici sorridenti e i fidanzati armati di fiori e spumante caldo.

Il duemila stava arrivando, ma il sole sui tetti in costruzione non batteva più. Anzi, quei tetti non erano più neanche in costruzione. Rimasero scheletri e sono ancora là. Dal ciglio della strada, dove improvvisamente ci ritrovammo, li fissavamo tutti, innocenti.

Ora è il 2017. Quella differenza dà una cifra a quattro decine. Troppe. Nel frattempo chissà quanti ne ho visti, ne abbiamo visti, di architetti che architetti non sono stati mai. La classe architettonica del ‘75 si è dispersa lungo mille strade. Sono architetti, padri, madri, o zii, insegnanti, impiegati, imprenditori, agricoltori, marinai e disoccupati. Sono tristi, felici, indecisi, depressi, tenaci, diversi.

Tra qualche anno la leva architettonica diventerà su base volontaria. Per allenarsi alla beneficenza pura.   Quel numero chiuso sta diventando pure sciagurato.

Eppure, ne sono ancora convinto, io cinque o sei esami di architettura, anche a scelta, li renderei obbligatori. Per tutti.

(dedico questo brano a tutte le persone che divisero con me gli studi di architettura. Che siano diventati architetti o no. Che lo siano ancora o no).

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