La farsa della (cosiddetta) giustizia

faldoni tribunale
Ogni Lunedì mattina, ad Amalfi, c’è un “Grande Fratello” che va in onda senza telecamere e senza reclame. Se non avete niente, ma proprio niente di meglio da fare, potrete decidere di partecipare come pubblico prima che, malauguratamente, ne diventiate attori protagonisti. Alla salita di via Casamare si incontrano nell’ordine, l’ASL, la caserma dei Carabinieri ed il tribunale, non si sa in quale dei tre stabili sia meno piacevole trascorrere una mezza giornata, io l’ho passata nel terzo. Il Lunedì mattina è il giorno delle udienze penali, il cast è composto da numerosi avvocati, almeno venti, un pubblico ministero, un giudice (anche due), un cancelliere, un usciere, rarissimi imputati e qualche testimone. Tra questi ultimi, numerosi sono i vigili (rigorosamente in divisa quindi in servizio), carabinieri in pensione, non manca mai qualche funzionario di ente pubblico. Il programma comincia intorno alle 9.30, che verosimilmente diventano le 10, e termina intorno alle 16, una maratona del diritto. Un foglio scritto a penna appiccicato al muro accanto all’ingresso, annuncia che quel giorno saranno “celebrate” udienze per 56 processi, che in sei ore (eventuale pausa inclusa) significa meno di sette minuti ad udienza, perché qui il processo non è “breve”, è “sprint”. Il clima è sereno, gli avvocati discutono simpaticamente tra di loro, pacche sulle spalle, grandi sorrisi. Trasportano grossi faldoni, un paio per ognuno di loro. Il pubblico ministero invece, con l’ausilio di carrello, li porta tutti e 56… In questa sorta di set vanno e vengono una moltitudine variegata di persone: gli attori abituali, li riconosci subito: si muovono con disinvoltura tra l’aula ed il corridoio, conquistano la sedia davanti al tavolo e aprono il quotidiano sulla pagina dello sport. Smanettano con lo Smartphone, giocano al solitario sul tablet, raramente guardano l’orologio. Le vicende giuridiche si consumano con un incomprensibile lessico tecnico tra l’avvocato di turno, il giudice provvisto di buona volontà (ma assolutamente disarmato) e un pubblico ministero che sbriga il suo compito come un operaio alla catena di montaggio. Si va avanti così tra molestie telefoniche, detenzioni di armi da fuoco e guide in stato di ebbrezza. Un carabiniere afferma di ricordare l’alito pesante di un giovane fermato tre anni prima per un controllo e rivelatosi positivo all’alcool-test. Intanto io non mi ricordo cosa ho mangiato la sera prima. Il picco di ascolto si ravvisa quando comincia la lunga sequenza dei reati edilizi. Da quel momento in poi la fantasia si arrende alla realtà, tutto diventa motivo per allestire un processo: un pilastro non segnalato, un cancello abusivo, uno scavo non autorizzato; per un muretto di due metri in un giardino, due contadini litigano da 9 anni. Sfila un testimone semi-analfabeta, il giudice gli chiede di leggere la pronuncia di rito e lui fa fatica. I suoi ricordi si perdono tra festività pasquali ed Epifanie di vent’anni prima, cita parentele incrociate, aneddoti estranei ai fatti. Il pubblico sorride, l’avvocato ha una pazienza da Santo, il giudice senbra che abbia rinunciato da un pezzo a capire… Dei numerosi vigili urbani parla solo una piccola signora che non ricorda quasi niente, gli altri non si smuovono dalla loro sedia da pubblico, aspettano composti che si faccia sera e via a casa. Intanto io ripenso al mio vecchio insegnante di diritto, che ho rivisto al mare, entrambi in costume, la scorsa estate dopo oltre quindici anni, ma non ho avuto l’ardire di salutare. Quel giorno che entrò in classe e con aria greve annunciò: “Oggi parleremo del diritto penale”, e noi diventammo seri, ma lui: “che non è, come state pensando, il diritto del pene”. E disse “pene” per assonanza linguistica ma era chiaro che avrebbe voluto dire quella parolaccia che comincia con la “c” e finisce in “zzo”. In questo tempio del diritto penale non si presenta neanche un imputato. D’altronde chi da giudicato, persino colpevole, si sottoporrebbe a questa appendice di vana sofferenza ? Una novantenne cardiopatica manda un certificato medico, un altro si è trasferito in Svizzera, altri non hanno mandato neanche l’avvocato e il giudice ne chiede uno d’ufficio per tamponare…. Anche Vauro potrebbe venire a fare qualche vignetta su come si è ridotto un tribunale in questa periferia della giustizia; alla deriva della ragione, dove pure protestarsi innocenti è improvvido e bisogna aspettare. “I processi corti finiscono male”; sibila un avvocato, cerco di afferrarne il senso ma faccio fatica, immagino che non sia una frase che andrà sui libri di storia. Intanto mentre i processi si tirano per le lunghe, il marchio dell’infamia segue fedele ed intollerante anche gli innocenti, penso; anche più di un contratto con una compagnia telefonica. Tra notifiche smarrite, prescrizioni imminenti, eccezioni procedurali, difetti di forma e numerosi altri vizi sparsi, le udienze incassano veloci il loro canonico rinvio. Il sole fa tutto il giro delle finestre dell’aula, l’ombra si allunga sul pavimento, poi scompare dietro la collina. Il giudice ripete fino allo sfinimento la frase di rito, apre un grosso fascicolo ne sfoglia qualche pagina e recita: “si rinvia al 21 Gennaio 2013”. Ed io penso che dieci mesi mi sembrano un tempo irreale. Lontanissimo. In dieci mesi posso innamorarmi altre 20 volte, sposarmi e separarmi, ridere e piangere, andare al cinema a vedere film stupendi, leggere decine di libri. Possono morire persone care e nascere bimbi meravigliosi. Potrei andare a New York, in Australia, smettere di fare l’architetto e mettermi a vendere gelati su una spiaggia in Polinesia. E là rincontrare il mio vecchio prof di diritto e dirgli che il diritto penale è diventato un pò come lui, vent’anni fa, diceva che non fosse.

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