Il viaggiatore che ha la ventura di imbattersi in Covidia, ne percorre le strade semideserte, imbattendosi in centinaia di serrande scese, saracinesche sbarrate e porte murate sulle quali, solo grazie alla tenacia dello scotch, resistono affissi sbiaditi cartelli di “cedesi” o “vendesi”.
Le uniche luci che scorge il viaggiatore provengono dalle insegne dei supermercati, dove all’ingresso, nei parcheggi, sovente si può ancora incontrare qualche vecchio guardamacchine, che in cambio di cibo e alcool, può accettare di narrare la storia di Covidia.
Il viaggiatore interessato, se vuole sapere com’è nata la città, non ha altra scelta.
Perché nessun libro parla di Covidia. La sua genesi, rimossa dai saggi e ignorata dalla letteratura storica, è solo nella memoria degli anziani.
“Nessun architetto ha progettato Covidia. Essa nacque spontaneamente quando gli uomini smisero di opporsi al cambiamento. Convinti che non sarebbe cambiato niente o che sarebbe andato tutto bene”.
Inizia sempre così il racconto del vecchio.
“La loro indifferenza proseguì anche quando, uno per volta, chiusero i negozi e le botteghe. Quando nei ristoranti smisero di cucinare e nei bar tacquero le macchine del caffè.
Alla gente fu prima suggerito e poi imposto di lavorare da casa. Tutti gli uffici rimasero vuoti.
Le locandine ingiallirono nelle bacheche dei cinema, nei teatri il velluto delle sedie fu aggredito dalle tarme. Le banche sostituirono gli impiegati con gli sportelli automatici, messi a sentinella di casseforti lasciate vuote dalla scomparsa del contante. Infine, ritenendole superflue ed inutilmente pericolose, chiusero le scuole. Fu a quel punto che ci si accorse che era davvero troppo tardi per tornare indietro”.
Al viaggiatore che si chiede come mai la gente non scendesse più in strada, il vecchio risponde amaro.
“Avevamo paura. Nessuno aveva intenzione di avvicinarsi all’altro. Non ci toccavamo più, e quando, raramente, ci parlavamo, lo facevamo dandoci il fianco. Non ci fidavamo. Smettemmo di volerci bene, prima tra di noi, poi anche a noi stessi. Chiusi in casa ci imbruttimmo. All’inizio riuscivamo a riunirci nelle chiese, ma presto cominciammo a perdere la fede.
Ci chiedemmo: «Può davvero Dio, voler tutto questo?».
Pure i sacerdoti iniziarono a dubitare, quindi scomparvero, tormentati dai dubbi e sfiniti dalla solitudine”.
Apprende così, il viaggiatore, quel processo di lenta disgregazione che ha frantumato la vecchia città degli scambi e degli incontri.
“Rimasero aperti solo i supermercati. Che, per evitare la formazione delle folle, si moltiplicarono”.
Non può fare a meno di notarle, il viaggiatore, quelle fila ordinate di persone che entrano nei grandi magazzini in numero di tot per volta ed evitano di avvicinarsi uno all’altra, come respinti da un’immaginaria corrente elettrica, che le dispone come su una scacchiera con la metà delle caselle proibite.
“E’ per questo che Covidia è anche detta la città dei supermercati!”.
E qui il vecchio, con quel poco di energia che gli rimane, apre le braccia e le fa ruotare sopra la sua testa, indicando decine di insegne luminose di altrettante strutture, che punteggiano il panorama della città. Finché reclina il capo, sfinito.
A quel punto al viaggiatore non resta che saldare il conto del racconto al vecchio.
E, scansando le auto che nervosamente fanno manovra nello slargo, avventurarsi verso un nuovo supermercato.
(Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giornale dell’architettura”. Lo trovi QUI).
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