Non si fa nessuna fatica ad arrivare a Ponteggia, la città dei ponteggi.
Non bisogna spostarsi di un solo metro, non serve il treno o l’aereo. Non occorre un’autovettura, mappe stradali, né navigatori.
Ponteggia potrebbe essere il nuovo nome della città dove stiamo.
D’altronde non esiste una sola Ponteggia, ne esistono tante, confinano e si somigliano tutte; solo gli anziani o i più esperti sanno distinguerne i confini.
Eppure, rispetto al passato, non sono cambiati gli abitanti e non sono cambiate le strade. I cartelli, gli incroci, le aiuole calpestate, i sottopassi e i semafori non si sono spostati di un millimetro.
A Ponteggia sono sparite le facciate degli edifici. I basamenti, le finestre e i balconi, i marcapiani, le grondaie, i terrazzi e le verande. E ancora: i panni stesi, gli sguardi dietro i vetri, le crepe, «x» ama «y» e i cazzi disegnati sui muri, tutto scomparso dietro chilometri quadri di reti in tessuto verde militare.
Reti a maglia stretta, pure bianche, o nere o blu, decorate da reclame, aziende con nomi senza fantasia, acronimi misteriosi o sigle anglofone. Solo gli uccelli scorgono i tetti che furono delle antiche città, laddove ancora esistenti; taluni sono ricoperti da drappi rinforzati, per la loro sostituzione o il loro ornamento con pannelli solari, celle fotovoltaiche, unità esterne, boiler di accumulo.
Come sia nata Ponteggia, il viaggiatore può chiederlo ad uno degli uomini dal caschetto giallo che si incontrano sui suoi viali deserti e impolverati.
Lui vi dirà che, in realtà, si occupava di tutt’altro. Prima che servissero sollevatori, autotrasportatori, imbianchini e ovviamente ponteggiatori.
“E’ successo tutto molto in fretta”. Così inizia il suo racconto.
Una reazione a catena rapida ed inarrestabile. Costruita la prima impalcatura, subito, come per gemmazione ne è nata un’altra subito accanto. E poi un’altra ancora e poi ancora. Era tutto uno sferrare di incastri, recinzioni, luci intermittenti. Una frenesia febbrile, come il più contagioso dei virus. Dal passaparola tra inquilini e avvocati ai supplementi-guida dei quotidiani, mastri conniventi con amministratori di palazzo, geometri indispensabili come chirurghi in tempo di guerra. E assemblee, ripetute e interminabili assemblee condominiali presenziate da sconosciuti uomini in giacca, cravatta e tablet.
Facciate perfettamente levigate, dove le cornici con le loro bordature imbarocchite risplendevano e le zincature delle ringhiere «canna di fucile» brillavano di nuovo, si ritrovarono in mezzo ad una foresta di tubolari metallici.
“Anche gli ospedali. I cinema, i musei. E le chiese”.
Parroci con la vocazione sopita da architetti e la speranza di un bonus benedetto.
“Un giorno eravamo tutti fuori al balcone a cantare e il giorno dopo ci siamo ritrovati chiusi dentro”.
L’uomo dal caschetto giallo si commuove mentre parla.
Conosceva uno che dal ponteggio cadde di sotto, annegando nell’oceano dell’urgenza. Di lui non si ebbero più notizie. “E come lui anche altri, caddero. O batterono la testa (e qui si tocca il caschetto come ad assicurarsi di averlo ancora) o sacrificarono una gamba, una mano”.
Ogni nuova città, d’altronde, ha bisogno di un adeguato numero di martiri.
In ogni caso vennero rimpiazzati subito dopo.
“Un giorno si alzò un libeccio così violento che tirò giù quattro ponteggi sulla via principale. Allora iniziarono le polemiche, che non eravamo capaci di farli abbastanza solidi quei ponteggi, allora si assunsero altri operai, qualificati (così dissero) che avevano seguito un corso di aggiornamento. E gli ingegneri della sicurezza si moltiplicarono finché decisero che ogni ponteggio andava fissato a quello accanto”.
Così a Ponteggia nessun ponteggio fu più libero da quello a fianco. E per smontarne uno andava smontato anche quello accanto e quello accanto ancora. Un unico, interminabile, infinito ponteggio.
Finché, fondate le mille e più mille Ponteggia, alzato anche l’ultimo tubolare, distesa anche l’ultima rete, Il Governo, che aveva prorogato e prorogato ancora e poi suggerito di attendere, tacque, anche perché nel frattempo non c’era più un Governo.
Gli amministratori di condominio sparirono. Alcuni di quelli in giacca e cravatta furono rinchiusi nei sottoscala, là scontarono la loro pena, nel girone dei locali caldaia. Altri fecero in tempo a rimettersi una t-shirts. I geometri, oramai inutili, comprarono una laurea breve in architettura-edile e si diedero al design.
Intanto le reti verdi ingiallirono. Le bianche annerirono come le nere. Le blu intristirono.
Sulle mille e più mille Ponteggia calò il silenzio.
Niente più sferragliare di impalcati e montacarichi in perenne saliscendi, nessuna chiave a stringere nodi, solo migliaia di giunti abbandonati sul selciato sotto telai oramai traballanti e smagriti scheletri di gru. La ruggine prese d’assalto ogni giunto, cedimenti, mezzi crolli, groviglio di ponti e controventature imprigionarono gli inquilini costretti nelle proprie case.
Ponteggia, la città dei prospetti scomparsi, dopo aver sollevato impalcati, ora solleva solo domande.
Come è potuto capitare? E cosa ne faremo ora di queste mille e più mille Ponteggia? Perdute le facciate degli edifici, potremmo almeno liberare gli abitanti?.
“Chissà. Molti saranno morti”.
Dietro ai teli, rinchiuso dai serramenti a taglio termico, l’odore della putrefazione sarà più intenso di quello di una guaina bituminosa? .
Per questo a Ponteggia non si vede più nessuno.
Solo operai in fuga sui trabattelli.
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