Credo di essere uno dei pochi ad aver visto dal vivo, la casa (detta “Pastore” dal nome del committente, cito come fonte la “Garzantina” di architettura) a Cetara dell’architetto Nicola Pagliara.
Una costruzione singolare e quasi praticamente sconosciuta in un territorio che è sulle pagine dei giornali, quotidianamente, solamente per la scoperta di nuovi abusi edilizi, per il sequestro di lavori non a norma e per i disagi legati al dissesto idrogeologico.
Per questo motivo la casa a Cetara di Pagliara rappresenta una assoluta rarità, una costruzione dal sapore antico, irreale e sospesa, fuori dal tempo, quasi un ostentazione di perizia tecnica, una prova muscolare.
Ebbi la sorte di “incontrarla” nel Maggio del 1995 (una mezza vita fa dunque), grazie ad una ricerca sulle prime opere dell’architetto napoletano commissionatami da un mio insegnante al primo anno di architettura. Aggrappata alla scogliera fino a confondersi con essa, ci si arriva e la si può vedere solo dal mare. Giunto in barca dal piccolo borgo di Erchie, dal piccolo arenile sottostante mi fermai a contemplarla, evidentemente sorpreso. Pagliara, romano classe ’33, di scuola napoletana, ma di formazione Wagneriana (visse a Trieste in gioventù), alla fine degli anni ’60 esplora i temi dell’architettura di matrice “antica”, quasi ipogea, interpretandola attraverso un faticoso lavoro sul materiale pietra, quindi molto distante dagli echi funzionalisti o dagli esperimenti high tech dei suoi contemporanei.
La sua personale “età della pietra” è completamente slegata dal treno delle esperienze coeve che Pagliara riaggancerà con le produzioni successive, interpretando a suo modo il tardo Neoliberty. E’ di questi anni anche la casa “F” a S. Maria di Castellabate, dove però l’arenile sabbioso pianeggiante sottrae elementi dimensionali alla ricerca dell’architetto. E’ in costiera amalfitana, lungo la costa che va da Cetara a Vietri sul mare, che Pagliara può sperimentare, con successo, il valore estetico e formale del materiale lapideo.Libero (era il 1968) dai vincoli dei piani urbanistici territoriali, dalle minacce di associazioni ambientaliste e dai controlli di solerti sovrintendenti e forze dell’ordine, Pagliara può serenamente confrontarsi con la parete rocciosa e il mare, scappare dalle sirene dell’apparenza, evitare persino le tentazioni organiche Wrightiane, affermando con vigore l’energia concettuale della pietra da taglio sacrificando (intenzionalmente ?) la facilità di lettura in facciata come in pianta.
La casa a Cetara è così un’opera a tratti incomprensibile, che sembra generata dal caso poiché condizionata dai capricci geologici della roccia, ma suggestiva sia nel disegno dei particolari che nell’atmosfera goticheggiante. L’ispirazione si può quindi rintracciare nelle antiche costruzioni a torre fortificate, nei nuraghi sardi fino al richiamo scultoreo di alcune opere di Gaudì (tra tutte, casa Milà). Uno stravagante “brutalismo della pietra”, senza precedenti nè epigoni.
La casa a Cetara di Pagliara apre e chiude il capitolo dell’esperienza architettonica, con il complicato rapporto uomo-territorio che è insito in esso, in costa d’Amalfi. Gli anni ’70 saranno quelli della speculazione edilizia senza freni, dei condomìni e dell’albergopoli. Segùiti a ruota dai condoni edilizi, dalle case “cassette della frutta” e dalle normative del PUT e del “Parco dei divieti”: i rimedi peggiori del male che hanno contribuito a devastare il paesaggio.
Al di là del valore formale dell’opera (che si può discutere) e della sua coerenza architettonica all’interno della biografia di un personaggio dalla carriera lunga e variegata, la casa a Cetara ricopre, senza dubbio, un ruolo di spessore all’interno della storia recente di questo territorio. Si fa interprete di un approccio con la volumetria edilizia impraticabile oggi, sia dal punto di vista economico che tecnico; camaleontica architettura nata da un’ideologia episodica quanto illusoria premonitrice di un tempo che, in costa d’Amalfi non fu allora e che non sarà mai più.
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