Tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 circa 1000 bombardieri prima inglesi e successivamente americani sganciarono sulla città di Dresda, in Germania, più di 7000 tonnellate di bombe, radendo al suolo la città e uccidendo, secondo le ultime e più accurate stime, circa 25000 civili. Fino a quel momento Dresda “la Firenze dell’Elba”, era rimasta immune da qualsiasi azione di guerra. Era lontana da obiettivi militari ed era considerata un posto sicuro.
“Tutte le altre grandi città tedesche erano state ferocemente bombardate e incendiate.
Dresda non aveva neanche un vetro rotto. Ogni giorno suonavano le sirene, mandando ululati infernali, e la gente scendeva in cantina e ascoltava la radio da lì. Gli aerei erano sempre diretti altrove: a Lipsia, a Chemnitz, a Plauen, in posti del genere. Così va la vita.
A Dresda fischiavano ancora allegramente i termosifoni a vapore. I tram scampanellavano. I telefoni suonavano e c’era chi rispondeva. Le luci si accendevano e si spegnevano quando venivano girati gli interruttori. C’erano teatri e ristoranti. C’era uno zoo. (…) (da “Mattatoio n.5”).
Tra i sopravvissuti a quel bombardamento c’era Kurt Vonnegut, allora 23enne soldato di fanteria americano, che con altri prigionieri di guerra utilizzò come rifugio un deposito sotterraneo delle carni. Quando, dopo due giorni, Kurt e gli altri uscirono dal rifugio, tra macerie fumanti, cenere e rovine la città si presentava come quella che immaginava fosse la superficie della luna.
Sul bombardamento di Dresda si tacque a lungo. Il numero di civili uccisi rischiava di rendere impopolare l’intervento alleato. Gli americani iniziarono a scoprirne le dimensioni dopo molto tempo. Vonnegut nel 1964 tornò a Dresda con un suo commilitone, quindi nel 1969 pubblicò il suo libro più celebre al quale diede il titolo del posto dove alloggiò durante la sua prigionia tedesca: “Mattatoio n.5”.
Il libro, uscito negli anni della contestazione, mentre gli Stati Uniti, ancora scossi dagli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy, erano impegnati nel conflitto in Vietnam, diventò subito un testo di riferimento del movimento pacifista.
Per esorcizzare le violenze e la crudeltà della guerra ed elaborarne i lutti, Vonnegut inventò il personaggio di Billy Pilgrim, suo alter-ego buffo e mediocre, capace di viaggiare avanti e indietro nel tempo con la forza dell’immaginazione.
Pilgrim si troverà immerso così in esperienze surreali come subire il rapimento dei Tralfamadoriani, alieni a forma di sturalavandini, in grado di vivere in cinque dimensioni e quindi presenti contemporaneamente in tutti gli istanti del tempo, che lo espongono in uno zoo spaziale.
O incontrare Kilgore Trout, scrittore di racconti di fantascienza usati come riempitivi in riviste pornografiche, che sbarca il lunario rifilando abbonamenti di giornali locali che fa distribuire a giovani sfaccendati (Vonnegut utilizzerà il personaggio di Trout in quasi tutti i suoi romanzi, eleggendolo suo feticcio letterario).
Ritrovatosi in ospedale dopo un terribile incidente d’aereo, Billy al suo compagno di stanza, un professore di storia di Harward impegnato a scrivere una storia dell’aviazione americana, continuerà a ripetere «Io c’ero». «Io c’ero». «Io c’ero». Fino a convincerlo a raccontare la verità.
Vonnegut fu scrittore tagliente e anticonformista. In “Madre notte” romanzo del 1961 scrisse: “noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere”.
Per anni fu stroncato dalla critica che lo considerava un mediocre autore di fantascienza. Gore Vidal disse di lui che era “il peggiore scrittore d’America”, ma la sua capacità di essere comprensibile ad qualsiasi livello di lettura lo fece rivalutare in fretta. Divennero suoi sostenitori, tra gli altri, Norman Mailer e Doris Lessing, persino Vidal ne ammise infine le qualità. Ne è prova che a 100 anni dalla nascita e a 15 dalla morte, i suoi libri sono nelle librerie di tutto il mondo.
Kurt Vonnegut scrisse 14 romanzi, ma il suo capolavoro resta “Mattatoio n.5”, testo che contiene le istruzioni necessarie per farsi una ragione della pazzia degli uomini, della morte, di Dio, del destino e del tempo che consuma ogni ambizione. Per questo dopo più di mezzo secolo dall’uscita continua a restare un incrollabile classico.
Un romanzo, necessario e inimitabile.
Feroce e indomabile. Feroce come la guerra. Indomabile come la vita.
(Quest’articolo è stato pubblicato nella rubrica “L’Archritico su Ulisseonline.it)
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