Italo Calvino scrisse che: “ad ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere”. A più di trenta anni di distanza da queste parole, guardandoci intorno non è più semplice comprendere quale pezzo di felicità possa essere scoperto nelle nostre città che nessuno più dimostra di amare. Nè i cittadini, né gli amministratori, a volte neanche gli architetti. L’aspetto più inquietante dello sfascio delle nostre città è lo scollamento profondo tra le ambizioni di socialità degli abitanti e l’offerta aggregante dei luoghi in cui vivono. Avviene, in parte, nelle grandi città soffocate dal traffico e dai centri commerciali, càpita in maniera devastante nei piccoli centri dove per anni ci si è dimenticati di creare luoghi di aggregazione multi disciplinare, anzi spesso li si è sostituiti, dimenticati e lasciati morire. La sfida delle città si mostra oggi in tutta la sua arditezza dinanzi all’incombenza di altre forme di comunicazione e di sottocultura. Facile il richiamo ai social network che della socialità sono soltanto la tomba; dinanzi all’abbandono e alla disconoscenza della questione, facebook ha vinto senza incontrare nessun ostacolo la battaglia della (finta) comunicazione tra le persone di ogni età. La maniera di scambiare delle pseudo opinioni, senza incontrarsi, senza rischiare, senza recarsi fisicamente in un luogo, in meno di un decennio cancellerà il concetto stesso di piazza, di luogo materiale concepito per effettuare un incontro, che per secoli è stato il nucleo nevralgico della città moderna. Di questo tracollo sociale ed urbanistico sono responsabili tutti coloro che si sono occupati delle nostre città in questi ultimi trenta anni. Innanzitutto perché non hanno saputo comprendere che la vera forza innovatrice, creativa ed anche economica di una città è quella che si forma con lo scambio di idee attraverso la mescolanza di culture diverse e forme di espressione differenti. Scambio che avviene per interessi comuni o affini, piacere fisico, bisogno di comunicare, semplice curiosità. Ma che soprattutto avviene anche per merito della banale casualità. La piazza è (o era) il luogo fisico della conoscenza. Ed è evidente come non sia sostituibile, non cancellabile. Non sempre gli architetti riescono, quando interrogati, a creare uno spazio di aggregazione, ma ci sono pure sensazionali precedenti illustri. Quando Renzo Piano e Richard Rogers, nel 1971, vinsero il concorso per realizzare il Centre George Pompidou (o Beaubourg), nel quartiere del Marais, nel pieno centro di Parigi, affidarono alla grande area dinanzi al rivoluzionario edificio, l’improbo compito di diventare una nuova piazza della capitale francese. Così Piano racconta quell’opera: “Come un villaggio medioevale, è sostanzialmente un luogo di incontro e di contatto: il luogo del passeggio, dell’incontro inatteso, della sorpresa e della curiosità, intesa culturalmente, per intenderci (…) per questo ha una grande piazza di fronte che rappresenta il luogo di incontro primario”, e ancora: “I mimi, i saltimbanchi, i musicisti che si esibiscono nella piazza interpretano correttamente il suo significato: la piazza rappresenta il luogo dell’arte non formale, non istituzionale. Beaubourg, in fondo, non è nato solo per offrire cultura, ma per produrne. Una dimensione utopica forse impossibile, ma cercata”. Oggi la piazza del Beaubourg è, probabilmente, lo spazio aperto più frequentato dai giovani, parigini e stranieri. E Piano e Rogers hanno vinto una meravigliosa scommessa giocata contro tutti coloro che si schierarono contro quel progetto (e non erano pochi). Gli abitanti della costa d’Amalfi si guardino intorno e scopriranno che insieme agli spazi, nei loro paesi sono scomparse le sale cinematografiche, non esistono più teatri (e di conseguenza le compagnie teatrali), le associazioni cattoliche faticano, quelle sportive non hanno nè soldi nè strutture per programmare il futuro. Non abbiamo nè una libreria nè una biblioteca degna di questo nome, le rare presentazioni dei libri vanno deserte, le mostre d’arte estinte, i gruppi musicali un lontano ricordo, è scomparso l’oratorio che ha cresciuto generazioni di adolescenti. Le iniziative votate a far incontrare la gente sono viste con diffidenza, spesso confuse con approcci politici. E’ scomparsa persino “la strada”, l’ambiente che, prima di provare qualsiasi approccio culturale del mondo, fu la nostra prima palestra di vita. Nessuno si occupa mai di creare fisicamente, ed intorno ad esso le condizioni, uno spazio che sia piazza sociale del comune che abita. Per ignoranza certamente, ma prima ancora perché la piazza e lo scambio culturale che si crea in essa, non produce immediatamente ricchezza, denaro. Non prevede un operazione finanziaria ed un guadagno nell’immediato, quindi non interessa a nessuno: politici, amministratori, privati, tecnici. Inoltre progettare un luogo con queste caratteristiche contempla un rischio imponderabile, ci si avventura in un territorio senza garanzie, assumendosi una responsabilità economica prima ancora che etica. La creazione di un luogo che partorisca delle idee e ne faciliti lo scambio, produce, infatti, solo ricchezza immateriale e permette una crescita personale unicamente interiore, altrimenti complicata. E’ un investimento immateriale a lunghissimo termine che, spesso, necessita di scelte impopolari: occorre sfrattare vecchie rendite di posizione, erogare incentivi, mettere da parte interessi personali; si tratta di operazioni complesse, peraltro poco spendibili in chiave elettorale. Di contro è molto più agevole, popolare e redditizio, realizzare, ad esempio, capannoni temporanei, spettacoli pirotecnici, nuove strade carrabili o, ancora meglio, parcheggi. Ecco con cosa abbiamo sostituito le nostre piazze: con tanti “meravigliosi” parcheggi, dove incontrarsi tutti alla macchinetta del ticket per cambiare le banconote in spicci. Ai pedoni, se tifosi, resta qualche bar per la partita di calcio e un senso di vuoto ed inadeguatezza che non sappiamo più come colmare.
In morte dello spazio pubblico
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