Se siete interessati a comprendere lo stato in cui si trova l’architettura e la sua considerazione nella vita italica, vi basterà dare uno sguardo al balcone dal quale vengono decise le sorti del paese.
Vittima innocente di un progressivo imbruttimento.
Dal balcone di Giuletta Capuleti a Verona, elegante ed essenziale nel suo stile tardo romanico, si poteva cogliere il seme del rinascimento che pure produsse balconi con balaustre a pilastrini tondeggianti come quella di Palazzo Venezia, forse opera di Leon Battista Alberti, dal quale per un ventennio provennero le sorti (tragiche) della nazione.
Successivamente, nell’Italia della ricostruzione e dell’incertezza, a simbolo dei balconi va eletto quello situato in un condominio anonimo sulla Tangenziale est di Roma, dal quale Fantozzi si calava per non perdere l’autobus ed arrivare in orario in ufficio. Dalla qualità di quel balcone, dalla sua comoda geometria priva di fronzoli, e dalla adiacenza alla fermata dei mezzi di trasporto cittadini, dipese il destino di un’intera generazione di italiani coraggiosi; i nostri padri, costretti ad ogni tipo di sacrificio.
Era un balcone spartano, vulnerabile sia alle incursioni sonore che termiche, ma comunque più elegante di quello dal quale oggi tutto si decide: uno di quelli al secondo piano, dell’edificio adiacente al Teatro Ariston di Sanremo durante la tradizionale rassegna canora.
Da là si affacciano i protagonisti del festival della canzone italiana, invocati a gran voce dalla folla sottostante che per suscitarne la benevolenza usa intonare inquietanti motivetti popolari.
Come la storia insegna, artisti e romantici, disperati e saltimbanchi, incantatori di serpenti e codardi, dal balcone si affacciano, aizzano gli adepti, salutano agitando la mano, elargiscono baci, ringraziano e rientrano.
E questa benedizione pubblica equivale sempre ad una abluzione collettiva, in grado di annullare qualsiasi altra piaga sociale, economica e culturale.
Ma, in realtà, quello al secondo piano del fabbricato sanremese non è un vero balcone. Definito persino “balconcino”, all’architetto non sfugge che, considerate le dimensioni, sarebbe più appropriato parlare di balconata.
Ma anche l’accezione “balconata” non è corretta. Quella chiusura lungo tutta la sua lunghezza, tecnicamente lo (s)nobilita il balcone, mutandolo in veranda. Quindi oggi i destini della patria si decidono da una veranda.
E’ sempre l’occhio del tecnico a rilevare alcuni particolari che contraddistinguono questo elemento architettonico onorato da cotanta visibilità.
Detto della chiusura a veranda. Giova sottolineare come questa sia stata effettuata con eleganti profili in alluminio anodizzato lucido, scorrevoli in orizzontale. Una preziosa finitura, tanto chic quanto tenace.
Alle spalle della veranda non si sottovaluti la ricercata chiusura della bucatura con il tradizionale avvolgibile plastificato di colore begie chiaro, raffinata eredità del movimento moderno mitteleuropeo.
A parziale mascheramento della facciata, per abbellimento ed allestimento insieme, notevole è pure la scelta dell’illuminazione a led, in varie colorazioni, stile festa della Madonna incoronata di Monopoli completata da serie di mini lampadine disposte secondo un disegno anarchico come da tradizione degli addobbi natalizi.
Ecco cosa, in sostanza, siamo: un paese verandato, affidato a materiali improbabili, illuminato fintamente a festa.
A meno di non voler considerare il vero balcone degli italiani quello del Papa (terzo piano del Palazzo Apostolico, Città del Vaticano).
Si veda pure:
SFIDE: L’architetto contro l’alluminio anodizzato.
Brevi storie degli elementi architettonici sottovalutati: la veranda.
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