Fu nel Febbraio del 1990, esattamente 4 giorni dopo aver compiuto quindici anni, che raggiunsi il punto più alto della mia carriera sportiva.
Ho giocato a basket praticamente da quando sono stato capace di correre e tenere in mano una palla contemporaneamente, ovvero coordinare due movimenti semplici del corpo. Ma forse all’inizio non ero ancora capace neanche di quello.
A pensarci bene questa circostanza è l’unica dove ho fatto in anticipo le cose, in tutti gli altri casi della mia vita sono arrivato in ritardo; in alcuni casi piccolo ritardo, in altri casi ritardo grave. Alcune cose che avrei dovuto fare, non le ho ancora fatte.
Nel 1990 giocavo nel campionato “Allievi”, ma venivo convocato per allenarmi anche con la squadra della categoria “Cadetti”, più grandi. Erano allenamenti diversi dai nostri: cominciavano sempre con dei giri di campo, che invece noi quindicenni non facevamo mai. Durante questi giri di campo che venivano definiti “riscaldamento”, l’allenatore rimaneva seduto a leggere o a fissare il soffitto della palestra, i diciassettenni invece facevano conversazione, segno che l’andatura era piuttosto leggera. Oppure cantavano. Nel Febbraio del 1990 la canzone più cantata agli allenamenti dei “Cadetti” era “Nice che dice” di Zucchero, che io, prima di frequentare quel gruppo non avevo mai sentito. Anzi le prime volte non avevo neanche ben capito che era una canzone e che era anche piuttosto famosa. Così quando tutti la cantavano, io, all’inizio, facevo solo finta, cioè aprivo la bocca ma senza cantare anche perché non volevo sbagliare le parole, che poi detto francamente, non è che “Nice che dice” abbia questo testo così raffinato, anche se in quel periodo tutto quel disco di Zucchero andava fortissimo tra i diciassettenni.
Siccome erano ragazzi più grandi, gli allenamenti si tenevano anche più tardi, anche allenarsi di sera era una sorta di riconoscimento, un lasciapassare verso l’adolescenza quasi adulta, dopo di noi si allenava solo la squadra maggiore e così quando noi finivamo, loro erano già ai bordi del campo così potevi farti notare, ma soprattutto farti vedere dall’allenatore della squadra che giocava il campionato di “Promozione” che ogni tanto, se aveva bisogno, chiedeva ad un ragazzo di restare, magari perché mancava qualcuno o semplicemente per premiarlo.
Comunque quel giorno di Febbraio, quello del punto più alto della mia carriera, era un pomeriggio come tutti gli altri, era anche un Mercoledi, un turno infrasettimanale, avevamo una partita piuttosto complicata sul nostro campo e il nostro allenatore era piuttosto preoccupato perché soffrivamo due assenze importanti.
Ma per me non era una cosa grave: già allora nutrivo una gran fiducia negli atleti che giocano poco ma si allenano tanto aspettando il loro momento, poi nel futuro sarebbe capitato molto spesso anche a me, comunque pensandoci bene, già allora mi capitava con la squadra “Cadetti”.
Ero convinto che anche chi giocava solo pochi minuti in una partita, in realtà avrebbe potuto giocarne bene molti di più, spesso chi ne gioca così pochi li interpreta male proprio perché sa che saranno comunque pochi e allora si impegna di meno, come se non si sentisse la responsabilità davvero del risultato. Per questo credevo che i miei compagni avrebbero dato tutto. Certamente io avrei dovuto giocare una buona gara, era quello che si aspettava il mio allenatore ed era anche quello che speravano i miei compagni.
Ora non mi ricordo se quel pomeriggio mi sentissi in uno stato di grazia; nel millenovecentonovanta non avevo ancora letto quel libro: “E se c’ero dormivo” di Francesco Piccolo, dove si teorizza il principio del numero di canestri stabilito per ogni partita. Ovvero che ognuno di noi ha un numero di tiri giusti per ogni partita e, di conseguenza, se li azzecchi tutti nel riscaldamento non te ne rimane neanche uno per la partita. Quando lessi il libro, credo almeno 5 anni dopo, giocavo ovviamente ancora a basket, da allora ogni volta che iniziavo il riscaldamento prima di una partita, mi veniva in mente questo teorema che, in fondo, è un ottimo strumento per farti coraggio nel caso durante il riscaldamento non riesci mai a fare canestro. Dunque di quella partita non mi ricordo quasi niente. Solo alcuni piccoli particolari.
Mi ricordo, ad esempio, che i miei compagni di squadra riposero tantissima fiducia nei miei tiri, nei miei “terzi tempi” e “passi e incrocio”, e che mi incoraggiavano, mi dicevano “bravo”, “dai forza”. E ad ogni time out mi spingevano a continuare a fare canestro. Allora nei campionati giovanili era in vigore la regola della difesa “ad uomo” obbligatoria, cioè era vietato difendere “a zona”, per questo motivo eseguire bene i fondamentali aiutava a fare molti canestri.
Però mi ricordo anche che negli ultimi minuti la squadra avversaria, contravvenendo alla regola, era concentrata in difesa tutta su di me, e allora io fintavo sempre di tirare e poi passavo ai miei compagni, anche a quelli che non segnavano mai, che però erano liberi e si sentivano importanti, come forse mai fino a quel momento era successo. E tutti loro segnarono diversi canestri.
Me lo ricordo quest’impegno dei miei compagni di squadra, anche di chi si trovò a giocare solo gli ultimi minuti e diede il massimo, perché se poi avessimo perso non sarebbe certo stata la stessa cosa.
A fine partita mi dissero che avevo segnato ben 48 punti, un ex-giocatore che era là a guardare la partita, mi disse che quel punteggio mi aveva fatto entrare nella classifica dei migliori tre marcatori di sempre, per quella società, in una partita sola. E poi mi disse anche i nomi degli altri due, anzi i soprannomi, ma io non li conoscevo.
Non sono sicuro che il mio allenatore di allora mi fece i complimenti. Avevo molta stima di lui, era stato un ottimo atleta ma per me era soprattutto un buon educatore. Quando la partita arrivava nei momenti decisivi e c’era un time-out, lui ci guardava negli occhi e ci diceva sempre la stessa frase: “state in cervello”. Eravamo dei ragazzini e non potevamo comprendere precisamente cosa avesse voluto dire con il suo “stare in cervello”, ma quando lo diceva io sentivo che tutte le energie che avevo in quel momento dovevo assorbirle dalla parte della mente, perché è la mente che regola tutto, anche le gambe. “Stai in cervello” mi ripetevo e andavo.
Mi ricordo anche il programma di basket che andava in onda sulla radio parrocchiale del paese ogni Lunedi.
“Dopo questo brano musicale, ci sarà la classifica dei migliori della settimana”, disse lo speaker che poi era un giocatore della squadra dei grandi. Allora io preparai la cassetta perché me lo sentivo che ci sarei stato anche io quella volta e sicuramente non al decimo e neanche al nono posto, ma molto più su.
“Vattene amore, che siamo ancora in tempo” cantava la radio. Verso la fine, spinsi play e rec insieme.
“Vattene amore…du du du, da da da” finì la canzone e cominciò la classifica.
Non ero al decimo e neanche al nono posto, la classifica salì fino al quinto posto, non ero neanche là. A quel punto sognai di essere primo, ma anche secondo sarebbe andato bene.
“Al quarto posto della classifica dei più bravi della settimana c’è” e a questo punto lo speaker disse il mio nome e poi i punti che avevo fatto. Ero quarto. Che, siccome, nessuno degli “Allievi” era mai andato in quella classifica era già un gran risultato, però poi a pensarci bene ai primi tre posti c’erano giocatori che quella settimana avevano fatto davvero meno di me. Fu forse quello il punto più alto che raggiunsi nella mia modesta carriera di atleta, certamente il più alto nella classifica al programma in radio.
Comunque quella settimana passò, andò in onda anche la replica del programma alla radio, venne un’altra partita e poi centinaia di altre ancora; di quel pomeriggio si persero le tracce nella memoria di tutti, tranne che nella mia e sul nastro di quella audiocassetta, dove ad un certo punto si sentono Minghi e Mietta cantare “Vattene amore” e poi una classifica di persone delle quali ricordo poco e quindi io al quarto posto, prima del podio. Tuttavia, a ripensarci dopo molti anni, quel quarto posto mi sembra, ancora, davvero un’ingiustizia.
Una vera ingiustizia, ma non perché non ci fossi io al primo posto ma perché non ci fossero anche tutti i miei compagni di squadra con me.
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