Ho scelto il mio nuovo profeta: è Philip Marlowe, l’investigatore frutto dalla penna e dell’immaginazione di Raymond Chandler; l’eroe cinico senza scrupoli né peli sulla lingua, amante del whisky e incline alla autodistruzione, che combatte contro l’insonnia e i soprusi della polizia, che diffida dalle donne, specie da quelle che lo amano, o dicono di amarlo.
D’altronde la sua opinione sul matrimonio non lascia dubbi.
“Per due persone su cento è meraviglioso. Gli altri si limitano a tirare avanti. Dopo vent’anni, a tutti i mariti non rimane altro che un banco da falegname nel garage”.
In Marlowe si intravede, in filigrana, il suo autore. Raymond Chandler, americano di Chicago, che sposò una donna 18 anni più grande, (che per lui divorziò dal marito) ma lo fece solo dopo la morte della mamma (che non voleva), che tentò anche il suicidio, cadde si rialzò e ricadde nell’alcolismo. E solo dopo il licenziamento dall’azienda petrolifera dove lavorava, decise di darsi alla scrittura per “sentirsi vivo”.
Da quel momento, era il 1932, Chandler divenne il capofila del romanzo hard boiled, maestro dei dialoghi e dei colpi di scena.
Marlowe compare per la prima volta nel 1939, ne “Il grande sonno”, accolto con moderato entusiasmo ma ben presto scoperto da Hollywood, dove i produttori lo affidarono ad attori quali Mithum, Bogart (l’indimenticabile trench stropicciato) e Gould.
L’ultimo vero ballo di Marlowe è nel suo romanzo, forse, più celebre: “Il lungo addio”, certamente il più malinconico.
Qui il nostro investigatore è alle prese con i guai del suo amico e vicino di casa Terry Lennox accusato dell’omicidio della moglie Sylvia; scappato in Messico e trovato morto suicida, viene ritenuto colpevole, causa una lettera confessione. Ma proprio il caso che la polizia vuole chiudere così facilmente è pane per i denti dell’investigatore dal cuore duro come i sassi, capace di prevedere il futuro e di estorcere alle donne persino l’inconfessabile.
La sua catalogazione delle bionde meriterebbe da sola un dibattito a parte.
La bionda minutina, la bionda tenera, la bionda pallida, esangue “affetta da un’anemia di tipo non fatale ma incurabile”. La bionda che ti guarda dall’alto in basso, quelle “tenere quanto un marciapiede”…
Pubblicato nel 1953 “Il lungo addio” è il sesto degli otto romanzi della serie di Philip Marlowe. Si intravede il canto del cigno del solitario Chandler, sempre più schiavo della propria insolenza e del suo nichilismo.
L’antieroe Marlowe, sfacciato, squattrinato, con la passione per le rivoltelle, che snocciola metafore e aforismi uno dietro l’altro, è entrato talmente nell’immaginario collettivo da generare decine di spin-off.
Della pletora di investigatori che oggi affollano le librerie e le serie tv, la maggior parte sono suoi figli illegittimi, non dichiarati.
In “Triste, solitario y final” (1974), lo scrittore argentino Oslvaldo Soriano resuscita Marlowe, affiancandolo in un’indagine sul declino di Stan Laurel (lo Stanlio italiano) in una Los Angeles surreale e noir. Lo stesso titolo del romanzo, è una citazione della frase simbolo de “Il lungo addio”: “Arrivederci, amigo. Non vi dico addio. Vi dissi addio quando significava qualcosa. Vi dissi addio quando ero triste, in un momento di solitudine e quando sembrava definitivo”
In tempi più recenti, nel novembre del 1992, un albo (il n° 74) del più famoso degli investigatori della famiglia Bonelli, Dylan Dog, “ruberà” a Chandler il titolo “Il lungo addio” per una delle sue più belle storie. Certamente la più romantica.
Dopo aver letto il fumetto, oramai trent’anni fa, comprai il romanzo di Chandler, “prima o poi” pensavo, “arriverà il momento di fare di Marlowe il mio profeta”.
Quel momento è arrivato.
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