IL NUOVO E L’ANTICO

Pur essendo trascorsi più di quarant’anni, le riflessioni prodotte nel II^ convegno internazionale degli architetti e tecnici dei monumenti di Venezia del 1966, restano ancora attuali. Nonostante, quattro decenni, siano un periodo esteso nel campo dell’architettura contemporanea, il convegno di Venezia è, senza dubbio, il punto di partenza per qualsiasi dibattito sull’incontro in architettura tra il nuovo e l’antico. Un tema, non a caso, affrontato con maggiore attenzione dal mondo della cultura italico (piuttosto che da quello estero) che del confronto con la storia ha sempre fatto il pane quotidiano della propria vicenda architettonica. Mai episodi di rottura nella storia dell’architettura moderna italiana sono stati accolti con assoluto favore, eppure in alcuni casi l’aggiunta di episodi di modernità ha generato un miglioramento sensibile dell’area anche in un centro storico. 

Si pensi all’operazione compiuta da Piano e Rogers con il Centre George Pompidou in pieno centro storico di Parigi: cuore di una riqualificazione architettonica ed urbanistica impossibile da ottenere con la riproposizione di uno schema classico. Altre opere di architettura, pur nella loro eccezionale modernità, riescono ad incarnare l’anima della città nella quale sono concepite e realizzate. La Torre Velasca a Milano rappresenta ad oggi l’icona del grattacielo italiano, il volto dell’Italia del boom economico, l’esatta rappresentazione di un nuovo modo di intendere la tipologia dell’edificio a torre adeguato alle esigenze della committenza, fuori da fascinose correnti di moda ma così coerentemente funzionante. La Torre Velasca, oggi, entra nello skyline di Milano con grande naturalezza, sembra esistere da secoli: anzi, sembra sempre esistita.

Questi due episodi, uno precedente e uno successivo agli atti del convegno di Venezia, sembrano confermare il pensiero di Bruno Zevi, il padre dell’architettura organica in Italia, personalità profondamente avanti e moderna tramite le sue teorie che rifuggivano l’ambientamento e la difesa “tout court” dell’antico a scapito della sperimentazione moderna. Zevi, già in quegli anni, notava l’andamento per il quale nelle nostre città si riusciva, nello stesso momento, a lasciare in rovina i centri storici e ad ostacolare in ogni modo l’affermazione dei valori dell’architettura moderna. Lo storico, in quell’occasione, scrisse: “L’architettura moderna deve essere francamente moderna, e non antica mascherata da moderna: deve puntare sulla creazione di un panorama nuovo, in larga misura antitetico a quello antico“. Per Zevi era chiaro che nessun compromesso con il passato o con le preesistenze ambientali, nessun tipo di mimetismo, aveva prodotto (e mai avrebbe potuto farlo) risultati positivi. Gli argomenti di Zevi furono anche costruttivi: “nel proporci il problema dell’incontro tra antico e nuovo non basta preoccuparsi di salvare l’antico; occorre anche difendere il nuovo. Le due operazioni sono culturalmente connesse; riconoscendo che i valori espressivi del nuovo non si conciliano con l’antico, quando decideremo di proteggere l’antico lo faremo con assoluta coerenza; quando ammetteremo l’incontro, saremo coscienti di creare nuovi valori in dialogo, per contrasto, col tessuto antico. In ogni caso, eviteremo l’imbroglio, il «classico modernizzato» o il «moderno ambientato», insomma tutti quei compromessi attraverso i quali offendiamo il passato ed il presente“. Zevi, consapevole che “in Italia tutto è vincolato e perciò tutto si sfascia“, si spinse fino a proporre la trattazione dello spazio urbano tramite tre atteggiamenti: “le zone da rispettare“, “l’incontro tra antico e nuovo” , “le zone libere da vincoli“. Nelle prime ogni edificio bisognoso di recupero andava restaurato; nelle aree dove doveva avvenire “l’incontro” la dialettica tra nuovo ed antico doveva essere esplicita e sarebbe stata tanto più efficace quanto più l’architettura moderna si fosse posta in maniera antitetica al contesto nel quale si andava ad innestare. A maggior ragione sarebbe potuto avvenire nel terzo tipo di zona.

Su Zevi, la critica ufficiale capeggiata da Roberto Pane si scagliò con energia rimproverandolo di aver proposto solamente argomenti formali ed estetici senza aver trattato la problematica per intero. Dagli atti del convegno scaturì la necessità che fosse un piano regolatore urbano ad affrontare le problematiche legate all’inserimento del nuovo nell’antico, stabilendo una strategia che fosse, di caso in caso, di tutela e/o di sperimentazione. Oggi la disciplina del vincolo ambientale ha stretto in maniera asfissiante la morsa intorno al territorio. Il dibattito sui centri storici è superato: il vincolo ambientale paesaggistico ha scavalcato il concetto di perimetro nel quale circoscrivere un insieme di edifici sottoposti a tutela. Oggi la tutela diffusa ha svuotato di significato il vincolo architettonico in quanto tale, perdendo autorità e fondamento. Il “modus operandi” delle soprintendenze ha di fatto ridimensionato l’atteggiamento di apertura nei confronti dell’architettura moderna, per cui oggi l’affermazione del moderno è legato a piccoli episodi testardamente voluti dai privati oppure a grandi opere pubbliche che raggiungono con molta difficoltà la conclusione (non sempre in maniera felice). Anche la stesura dei piani regolatori è stata resa più complicata dall’adeguamento ai piani territoriali che non possono contemplare nessun singolo episodio dissacratorio, nessuna sperimentazione, nessun architettura “eccezionale” (il caso dell’auditorium di Ravello è di scuola). I piani regolatori, nel migliore dei casi, quindi, si limitano a benedire una sorta di tutela cieca, spalmata sul territorio, preoccupandosi di congelare il territorio affinché ogni cosa sia a norma (ed è già un lusso, poiché in molti comuni il governo del territorio non è mai stato di interesse delle amministrazioni nonostante una legge stabilisca che vengano commissariati i comuni che entro un certo numero di anni non si siano dotati di un piano regolatore. E quanti ce ne sono in Campania!).

In ogni caso, con tutti i limiti di cui sopra, oggi lo strumento urbanistico rimarrebbe l’unico modo di incanalare il cambiamento. Ma dovrebbero essere pianificazioni coraggiose, che contemplino l’uso di nuovi materiali, il ridisegno dei “fronti strada”, l’adozione di forme estranee agli schemi classici, permettendo la realizzazione di architetture contemporanee anche in un tessuto antico.
Ahinoi, la strada dell’architettura italiana oggi è bloccata dalle macerie dell’antico (spesso del vecchio) che ci circondano e sono ovunque. Così come sono bloccate le speranze professionali di migliaia di giovani architetti, appartenenti ad una generazione sbagliata ed ingenuamente laureatisi con il desidero di dare alle città un nuovo respiro, un volto moderno. Per fare ancora dell’architettura quello che dovrebbe essere, parole di Oscar Niemeyer: “l’invenzione. Il momento della sorpresa“.

Nella foto: Architettura contemporanea a Brno (Rep. Ceca) in Piazza della libertà (Namesti Svobody).
Le citazioni sono tratte da: Lucio Santoro “Restauro dei monumenti e tutela ambientale dei centri antichi” – Di Mauro editore (1970)

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