Io e Nunzia non ci parliamo da due settimane.
Il litigio è iniziato con un suo messaggio.
Mi ha scritto: “Non ha mai capito niente di me”.
L’ho letto più volte senza trovarci nulla di oscuro. Era sintetico, chiaro.
Naturalmente ho subito provato a ricordare se le avessi detto o fatto qualcosa di male.
Ho riguardato gli ultimi messaggi ma non ho trovato nessun indizio. Quindi ho provato a ripensare all’ultima volta che ci eravamo incontrati. Eravamo stati al supermercato e poi, sulla via del ritorno, Nunzia si era fermata in un negozio di cappelli.
Ha davvero un pessimo gusto per i cappelli. Ricordo che voleva comprarne uno, terribile, rosa.
Poi avevamo fatto altri due passi e ci eravamo salutati sotto casa sua.
Tutto piuttosto abituale, quindi.
Al messaggio ho risposto.
Le ho scritto: “In che senso?”.
Ma lei non ha scritto nulla.
Il giorno dopo ho aggiunto: “ho fatto qualcosa di male?”. Ma, anche in questo caso, la mia domanda è caduta nel vuoto.
A quel punto ho deciso di assecondarla e le ho scritto: “Hai ragione. Ma è normale: io non c’ho mai capito niente delle donne”.
Ma anche questo tentativo di conciliazione è caduto nel vuoto.
Ho pensato di lasciar perdere. Nunzia è fatta così. Con lei bisogna attendere che la tempesta passi e nel frattempo sperare che non faccia troppi danni.
Ma i giorni sono passati e Nunzia non si è fatta più viva.
Cercarla al telefono poteva essere controproducente, così sono andato a trovarla a casa.
Ho bussato più volte al citofono ma lei non c’era.
Mi sono chiesto: “Cosa posso fare ora?”.
Come spesso capita quando ho un problema da discutere «da uomo a uomo», cerco conforto nel mio amico Alfonso detto «Fonzo».
Nonostante Fonzo abbia fatto solo quattro esami a psicologia, resta il mio terapeuta di riferimento (in assenza di Nunzia ovviamente).
Fonzo mi riceve sempre in un centro scommesse sotto casa sua, dove trascorre moltissimo tempo ma senza mai giocare; ci va solo per guardare gratis le partite trasmesse dalla tv a pagamento.
Gli ho spiegato i fatti. Fonzo ha ascoltato attento poi, senza scomporsi, ha sentenziato: “Indaga. Seguila”.
Il giorno dopo ho fatto qualche telefonata.
Un collega mi ha detto che al lavoro era tutto regolare. Sono andata a cercarla finché l’ho intravista in giro con una sua amica.
L’ho seguita per un po’, come mi aveva consigliato Fonzo.
Era in forma e di ottimo umore.
Apparentemente, non stava neanche frequentando qualche stravagante pazzoide, come a volte le capita. E’ una condizione sulla quale devo sempre vigilare.
Per essere certo che non avesse incontrato un nuovo maschio destabilizzante, il giorno dopo l’ho nuovamente seguita di nascosto nel tragitto dalla casa al lavoro.
Nunzia si è fermata al solito bar, ha comprato il giornale nella solita edicola, ha persino speso alcuni minuti ad ispezionare il solito negozio di cappelli orribili.
Tutto come sempre insomma.
A quel punto ho compreso che il problema ero solamente io.
Avevo senza dubbio fatto qualcosa di sbagliato. Ma non qualcosa di estemporaneo, doveva trattarsi di qualcosa che le avevo nascosto per anni o parole pronunciate molto tempo prima e che aveva scoperto solo ora. Questo l’aveva ferita profondamente.
Sono tornato da Fonzo.
“Quando una donna usa la parola «mai» è sempre per un motivo serio”, mi ha spiegato con calma.
“Certo. Ma potrebbe trattarsi di una rabbia momentanea” ho obiettato.
“Non farti illusioni. Quello è un messaggio preterintenzionale. E dopo un messaggio del genere, è difficile tornare indietro”.
La parola «preterintenzionale» mi ha fatto ricordare che Fonzo, dopo psicologia, aveva dato alcuni esami a giurisprudenza.
“Le hai mentito, vero?”. Mi ha chiesto poi, guardandomi negli occhi.
“No”.
“Giura?”.
Giurai.
“Fatti un esame di coscienza” mi disse salutandomi.
Di solito parlare con Fonzo mi è utile ma da quella mezz’ora di terapia non avevo ricavato nulla di buono.
Quella notte non riuscì a chiudere occhio.
Ripassai passo per passo il rapporto tra me e Nunzia, l’esame di coscienza che Fonzo aveva chiesto di farmi mi travolse, valutai che avrei potuto essere una persona migliore, ma non ricordai di averle mentito, non per cose serie, almeno.
Intanto non riuscivo ad immaginare la mia vita senza Nunzia. Mi veniva da piangere.
Il giorno dopo sono tornato al centro scommesse da Fonzo. Ero disperato.
“Pensi possa fare qualcosa per tentare di recuperare?”.
“Un regalo intendi?”.
“Non so” ero confuso. Avrei fatto qualsiasi cosa.
“Falla felice” ha detto Fonzo “l’incremento di ricchezza monetario non è paragonabile a quello misurabile dall’indice di benessere” ha aggiunto rammentandomi che, dopo psicologia e giurisprudenza, si era iscritto ad economia e commercio arrivando a soli otto esami dalla laurea.
Quindi mi ha congedato con un gesto della mano, perché stava iniziando un secondo tempo.
Ho così trascorso due giorni interi a pensare a qualcosa che avrebbe fatto felice Nunzia.
Come rendere felice una donna è uno dei più grossi misteri dell’universo.
Infatti non sono riuscito a farmi venire nessuna idea. Ho addirittura valutato l’idea di regalarle uno di quegli atroci cappelli che le piacciono tanto.
Intanto dal messaggio di Nunzia erano già trascorsi dieci giorni.
Sono ripassato dal centro scommesse, ma il campionato era fermo e Fonzo non c’era.
Ho provato a raggiungerlo telefonicamente.
Probabilmente nella sua carriera di psicoterapeuta amatoriale non si era mai trovato in una situazione così complicata, lo comprendevo.
Dopo una serie di sollecitazioni, mi ha scritto, lapidario: “Stupiscila!”.
Mi sono ricordato di un programma televisivo che avevo visto qualche tempo prima.
Un uomo ripudiato, per farsi perdonare, aveva noleggiato un aereo ultraleggero e lo aveva fatto volare sopra la casa di lei con un messaggio di scuse.
Già mi immaginavo quest’enorme striscione nei cieli della città esibire la scritta “Nunzia perdonami”.
Mi stavo già informando sul costo del servizio, quando Nunzia mi ha telefonato.
Il suo nome riapparso sullo schermo del telefono, mi ha fatto sobbalzare dalla sedia.
“Senti, che fine hai fatto?” mi ha chiesto a bruciapelo.
“Io?” avevo la salivazione azzerata dall’emozione.
“Ci vediamo più tardi? Ho da mostrarti una roba”.
Abbiamo preso un appuntamento. Doveva senza dubbio mostrarmi il motivo di quel litigio.
Sono andato al luogo dell’appuntamento nervoso come un bimbo al primo giorno di scuola.
Nunzia mi aspettava poggiata alla ringhiera davanti ad un piccolo bar.
“Sei scomparso?” mi ha detto subito.
“Ah io?” ho pensato senza dirlo.
Maneggiava un piccolo pacco.
“Guarda qua”.
Ha strappato la carta intorno al pacco, lo ha aperto.
Ha tirato fuori un cappello. Rosa con la tesa larga e un fiocco viola.
“Ti piace? Dì la verità!”.
Stavo per dire che era veramente brutto, ma non solo, era anche eccessivo e volgare e che indossarlo sarebbe stato una follia, ma non volevo ferirla.
“Bello” ho detto.
“Davvero, ti piace?” mi ha detto ficcandoselo in testa e volteggiando come una modella alla sfilata.
Era davvero orrendo.
“Certo! Ti sta benissimo” ho risposto, mentendo spudoratamente.
“Grazie. Mi stupisci” mi ha detto sorridendo: era davvero felice.
Siamo rimasti alcuni secondi a fissarci finché lei ha ripreso a volteggiare sul marciapiede.
Dopo due o tre giravolte mi si è avvicinata, abbracciandomi.
“Tu si che mi capisci” mi ha sussurrato all’orecchio.
“E quel messaggio?” ho replicato secco.
“Quale messaggio?”.
“Che non ti ho mai…”.
“Che?”.
“Dai che lo sai!”.
“Ah no! Quello non era per te”.
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