Il fallimento della mia generazione

Se, come hex Borsa Valoria detto Mario Botta, “l’architettura è una scommessa”; noi, e per noi intendo gli architetti della mia generazione, questa scommessa l’abbiamo ampiamente persa. E’ una riflessione amara che affido a tutti coloro hanno fatto dell’architettura un lavoro, un mestiere, una speranza, di quanti continuano ad inseguirne le possibilità e a quanti, viceversa, hanno rinunciato (e sono tanti tra i miei coetanei).

Tuttavia il fallimento di una generazione è un argomento che riguarda anche la politica, l’ordine professionale, chi si occupa della bellezza e della conservazione delle nostre città, l’economia. In Italia un giovane su tre (fino a 24 anni) è senza lavoro, al sud il 25 % degli under 35 non lavora e non studia; senza dubbio sono disoccupati molti neo-architetti alle soglie dei trent’anni, ma anche parecchi prossimi ai quaranta che hanno provato per molti anni ad investire sulla conoscenza, sull’aggiornamento della professione, sulla qualità e il rispetto delle regole e poi si sono trovati fuori dal giro, strangolati dalle spese, improvvisamente poveri. Questo sullo sfondo di una nazione che negli ultimi dieci anni ha “scoperto” come sono stati affidati i maggiori incarichi pubblici legati all’edilizia e, perché no, anche all’architettura. L’inchiesta “grandi eventi”, le cricche d’affari, la P4, le tangenti dell’area Falck a Milano e centinaia di altre commesse pilotate sulle quali la magistratura chiude ed apre, con periodica intermittenza, gli occhi. Il gravitare poi, intorno ad ogni opera pubblica di un qualche rilievo, di personaggi di nessuna autorevolezza e dal curriculum inquietante carica di sfiducia qualsiasi intenzione di buona architettura. La mia generazione, la parte che non si è allineata a questo sistema clientelare, ha dunque fallito ogni obiettivo, sciupando gli anni migliori dal punto di vista creativo.

In Italia la gioventù non è un dono, piuttosto un peccato inqualificabile, per gli architetti persino una colpa, considerato che prima dei cinquant’anni non vengono presi nemmeno in considerazione. Ma non è stato sempre così. Quando Terragni realizzò la Casa del fascio a Como (probabilmente la migliore opera di architettura italiana del XX secolo) aveva 28 anni, era il 1932. E poi molti altri: Giovanni Muzio costruì la “Cà Bruta” a Milano a 27, in pieno ventennio fascista la realizzazione dell’accademia della scherma a Roma fu affidata al 26enne Luigi Moretti. Adriano Olivetti, che Dio lo abbia in gloria, nel 1934 si fidò degli appena trentenni Figini e Pollini per le officine che portano il suo nome ad Ivrea. Anche dopo il conflitto mondiale c’è un bell’esempio di architettura affidata a giovani architetti: la borsa valori di Torino che Gabetti ed Isola con Giorgio Raineri (strutture di Giuseppe Raineri), progettarono quando avevano solo, rispettivamente, 27, 24 e 25 anni. Si tratta di commesse sia pubbliche che private, a testimonianza che esisteva un’imprenditoria illuminata (Olivetti) ma che persino il PNF (il partito nazionale fascista) era lungimirante nel cercare i migliori, giovani, artisti dell’epoca per conferire modernità e visibilità agli edifici del regime. D’altronde è naturale che sia la gioventù ad intravedere l’orizzonte del futuro, ad anticiparne il gusto e a nutrire fede nel cambiamento.

Oggi, alla soglia dei quarant’anni, gli architetti italiani possono vantare solamente un decennio di piccolo cabotaggio: specializzazioni improbabili, praticantato gratis, master a pagamento, ambiziosi tentativi concorsuali, per coloro che si sono cimentati nella libera professione anni di umiliazioni in giro per uffici pubblici pieni di apatici funzionari. Annose discussioni su interpretazioni di farraginosi regolamenti comunali, querelle interminabili su ridicole procedure che terminano sempre con dei divieti. Ed ogni volta con il timore che misere carte possano causare impronunciabili reati. Il nostro peggiore errore è stato quello di essersi fidati che questo sistema potesse essere elaborato dall’interno, che ci saremmo confrontati con professionalità capaci, norme e riforme all’altezza, che sarebbe arrivata presto l’opportunità per mostrare il nostro valore; su questa illusione abbiamo smarrito tutto l’entusiasmo, invecchiando nel corpo e nello spirito. Il segnale della resa è ancora più evidente quando si percepisce che in tanti decidono di abbandonare la libera professione; sono sempre più numerosi gli architetti che si adoperano per andare ad occupare una nuova scrivania della pubblica amministrazione, producendo nuova inutile burocrazia in cambio di uno stipendio, magari misero, ma sicuro. E’ tardi per invocarlo per la mia, già stanca, generazione, ma ritengo che i futuri architetti, i ventenni di oggi, dovranno praticare la vera rivoluzione con un risoluto quanto incrollabile culto dell’illegalità. Non la faranno da soli, ovviamente, decine di altre categorie professionali presto decideranno di ribaltare sottosopra questo paese.

Visti i tempi (oramai le rivolte esclusivamente culturali non producono nessun effetto) non sarà una rivoluzione “di velluto”, anzi probabilmente il cambiamento avrà bisogno di qualche inevitabile scontro di natura fisica. Ma le future generazioni, io credo, avranno il coraggio di affrontarlo. Saranno loro i protagonisti della nostra rinascita, la naturale evoluzione occidentale delle “primavere arabe” di questi mesi. La ribellione nei confronti di queste stupide regole, consentirà ai futuri architetti di demolire e ricostruire mille volte meglio le nostre città.

Saranno loro a spazzare via questa classe politica e dirigenziale che ha ingolfato il sistema, affollandolo di clientele e corruzione.

Mi auguro davvero di essere tra di loro quando ci riusciranno.

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5 Comments Il fallimento della mia generazione

  1. Francesco 12 Maggio 2017 at 16:35

    Una perfetta analisi della condizione di noi quarantenni (oramai ultra) che hanno abbracciato questa professione semplicemente per amore…un grande amore sconfinato e purtroppo malriposto…non già nella musa dell’architettura ma nell’avida meretrice che si cela sotto mentite spoglie. Essa è il mondo della professione, è la politica, le leggi, lo stato, tutto il sistema votato al solo interesse per il danaro e per il potere.
    E per contrastare tutto ciò ci vuole coscienza…ma una coscienza ferrea, poderosa, ferma nei suoi intenti e davvero non so oggi dove si possa trovarla…nelle nuove generazioni forse…

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  2. Luigi Rajneri 25 Gennaio 2018 at 13:48

    La borsa valori venne progettata da Gabetti Isola e Giorgio Raineri. Le strutture (la grande volta in c.a. precompresso) vennero ideate dall’ing. Giuseppe Raineri. Spesso vengono dimenticati due degli autori, peraltro fondamentali nella riuscita dell’opera. Lo stesso Gabetti si preoccupava di far correggere le pubblicazioni

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    1. admin 1 Febbraio 2018 at 18:19

      Giusto ricordare il contributo dei Raineri alla Borsa Valori di Torino. Inoltre entrambi, come Gabetti ed Isola, nel momento dell’inizio della costruzione erano giovanissimi. Giorgio aveva 25 anni, mentre l’ingegner Giuseppe Ranieri 28 anni. Su quest’ultimo ho trovato un affascinante pubblicazione monografica di A&RT del Gennaio 2009, interamente dedicata alle sue opere e che potete trovare a questo link: http://siat.torino.it/download/fileRoot/Tutti%20i%20documenti/Rivista/2009/n.1%20Giuseppe%20Raineri%20-%20Opere%20scelte.pdf
      Christian De Iuliis

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      1. Luigi Rajneri 6 Maggio 2019 at 15:37

        mi perdoni se la correggo. Il cognome è Raineri, non Ranieri.Infine, e a costo di sembrare insistente, occorre aggiungere i loro nomi nell’articolo e non solo nei commenti . Grazie

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        1. admin 9 Maggio 2019 at 12:09

          Fatto. Grazie per l’attenzione.

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