Da piccolo lo guardavo dal sedile posteriore della macchina di papà, questo edificio così grosso e strano, e non mi piaceva. Per anni, molti anni, crescendo, ha continuato a non piacermi, semplicemente perché non potevo capirlo; è evidente: ciò che non si (ri)conosce si guarda sempre con diffidenza; vale per gli uomini, vale per i luoghi, vale per l’architettura.
Sulla fabbrica Solimene, sul suo fascino un pò ambiguo, in mezzo secolo, si è scritto tanto e certamente in maniera autorevole, ad esempio sull’obbligato parallelo con il museo Guggenheim di Wright e sulla vocazione “organica” della sua struttura con i pilastri ramificati e le pareti esterne ondulate senza funzioni statiche. Ma probabilmente ciò che stupisce di più è il lucido legame che Soleri stabilisce tra la costruzione dello spazio interno e l’organizzazione del lavoro: la realizzazione di prodotti ceramici in questo caso.
Oggi la fabbrica funziona ancora come fu concepita: dal secondo livello parte il “pane” di argilla che percorrendo verso il basso la rampa elittica, passa attraverso le mani dei vari artigiani che lo tagliano, modellano, cuociono, decorano ed imballano o lo espongono come prodotto finale nell’invaso del pian terreno.
Dell’edificio colpisce indubbiamente il disinvolto uso dello spazio aperto e il conseguente impiego della luce, non vi sono pareti divisorie, le gallerie lungo la rampa si affacciano sul vuoto centrale, la facciata su via Madonna degli Angeli è in gran parte vetrata così come è vetrata la copertura. Ma è l’invenzione tipologica a catturare l’attenzione, una forma di organizzazione delle attività, conseguenza forse ma, già così distante dal modello Fordiano, che prevede una sorta di comunione di intenti, desiderio di qualsiasi imprenditore. Soleri dunque propone, più che un’architettura, un progetto urbanistico, un modello sociale, una cittadina in piccola scala, con abitanti operosi che sostano o si spostano lungo piazze e percorsi.
Le scelte estetiche sembrano quasi discendere da questa idea urbana, fino al rivestimento ceramico esterno, centinaia di vasetti colorati rovesciati, come scaglie sulla pelle di un rettile, veri elementi caratterizzanti dell’enorme facciata, ancora più delle vetrate triangolari che si posizionano su un piano secondario. Elementi tipici, discendenti delle maioliche sulle cupole delle chiese arabeggianti della costa, capaci di imporre un linguaggio locale senza sfociare nel kitsch ed anticipatore della cultura pop americana, del riciclo creativo: un enorme collage variopinto. Sospesa tra elementi Wrightiani e visioni alla Gaudì, la ceramica Solimene appartiene ad una generazione di edifici (realizzati o solo immaginati) senza nessun simile in Italia, dove l’organicismo si mischiò con tratti razionalisti ed espressionisti (Scarpa, Michelucci) senza cercare mai legami con gli accenti modernisti del primo novecento.
Piuttosto Soleri va accostato agli schizzi più audaci di Mendelhsonn in Europa o all’architettura coeva americana (l’organico Bruce Goff, le sperimentazioni di Fuller ma anche alcune forme di Niemeyer) o sud americana (si veda ad esempio la chiesa ad Atlàntida di Eladio Dieste)-
Dal 2000 la Ceramica Solimene è stata nominata monumento nazionale sotto la tutela del ministero dei beni culturali, nel 2005 la DARC gli ha dedicato una mostra a Roma dando l’occasione a Soleri di tornare in Italia.
Da qualche mese lungo via Madonna degli Angeli sono partiti i lavori di sistemazione dell’area antistante la fabbrica Solimene, ispirati da uno schizzo di Soleri che ha approvato il progetto e per il suo completamento ha donato una scultura. Dopo più di mezzo secolo l’opera continua a vivere.
Paolo Soleri è scomparso il 9 Aprile 2013, a Cosanti, la città da lui fondata, in Arizona.
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