Quando il campo pareva vuoto, il Professore era là.
Poteva capitare in qualunque giorno dell’anno, a qualsiasi ora. Da qualche parte, lo trovavi a sistemare le cose. Prima di ogni gara, e alla fine; quando tutti erano andati via c’era sempre un pallone da cercare, una luce da spegnere, documenti da firmare, porte da chiudere.
Durante, viceversa, rimaneva dietro i vetri della porta d’ingresso, da dove, senza mai scomporsi, seguiva gli incontri. Rientrando, fugace, agli intervalli, ti sorrideva; se lo meritavi.
La sua fiducia era un premio. Sapeva come e chi scegliere. E’ così che decine di ragazzini sono diventati adulti. Non ordinava, disponeva. Se il tempo gli dava ragione, non tornava per ammonire. Mai gli sentii dire: “te l’avevo detto!”.
Era maestro. Ma, se occorreva, anche supplente; tra generazioni che andavano e venivano, lui c’era sempre, perché la passione vera non lampeggia: è un faro ininterrottamente acceso.
Tifava il calcio e seguiva ogni sport ma dalla pallacanestro rimaneva incantato. Sarà perché “il basket è un’altra cosa”, come scrisse Philip Roth.
Non sopportava gli sciatti, a chi non s’impegnava indicava l’uscita. Odiava lo spreco, specie del talento.
Con i «lunghi» era benevolo, ritenendoli necessari, gli tollerava gli sbagli. Non tutti e non a tutti, però.
Puniva i maleducati: li sgridava. Se non alzava la voce, puntava lo sguardo, che era ancora più efficace. Lodava gli eroi sportivi, i prescelti del «tiro sulla sirena». Ma voleva bene ai deboli, a chi il destino assegnava un solo minuto e in quel minuto dava tutto.
Di ritorno dalle trasferte non domandava il risultato. “E’ andato tutto bene?” si preoccupava soltanto di chiedere. In vent’anni, non abbiamo mai discusso di soldi.
Sapeva unire. Se lo riteneva giusto, cuciva con pazienza le parti strappate, con la generosità dei miti. E più i pezzi gli cedevano intorno più resisteva agli urti, come fosse di pietra.
Amava le squadre. Si aggiungeva, solo su sollecito, lateralmente nelle foto ricordo. Soleva dire:“noi, noi, noi…”; non parlava mai solo di quello o di quell’altro.
Era felice nelle vittorie ma orgoglioso dinanzi alle disfatte. Stringeva le mani agli avversari, ringraziava gli arbitri. Non trasformò mai un fischio sbagliato in un alibi.
Sempre così, per centinaia di partite: quante ne abbiamo vinte. Ma, ahimè, quante ne abbiamo perse!.
Delle sconfitte insegnava il valore. La spinta per tornare, già dal giorno dopo, a fare nuovamente e più intensamente, sacrifici.
Tra i tanti, è questo l’insegnamento più grande che ho ricevuto.
Chi potrà farlo, adesso, per i ragazzi ?.
Ora che il Professore non c’è più, il campo è vuoto davvero.
(del Professore avevo già scritto un ricordo in “40 anni più un giorno“)
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