Ci sono almeno un paio di buoni motivi per considerare la “Cà Brutta” (nomignolo affibbiatogli subito dai milanesi) di Giovanni Muzio, l’edificio in via Moscova a Milano costruito tra il 1919 e il 1922, un’opera manifesto per l’architettura italiana del novecento.
Ragioni architettoniche, storiche, di estetica. Muzio, in architettura, è senza dubbio l’interprete più alto di quel movimento artistico (solamente italiano), definito “Novecento” che ispirò tutte le arti dalla fine del primo conflitto mondiale fino all’arrivo della corrente modernista/razionalista degli anni ’30.
Un periodo, quello in questione, tormentato e pregno di contraddizioni così come sono tutti i periodi che precedono una rivoluzione e nei quali il gusto precedente subisce una deformazione di maniera, tramutandosi in piccoli rivoli, espressioni di contestato gusto, in attesa della nuova strada.
In Italia, questo turbamento si tradusse in interpretazioni tanto originali quanto modeste. Le influenze dell’art Decò e di un certo espressionismo informano l’architettura di Torino mentre l’ambiente milanese è influenzato dal gusto austriaco; ma Roma e Milano vivono anche una stagione di stravagante eclettismo (che a Roma prese anche il nome di “barocchetto”), con improvvise divagazioni persino di stampo mediovalista.
In questo variegato catalogo espressivo, giova, senza dubbio, a Muzio il confronto con quella generazione di pittori che dal clima tormentato di quegli anni trassero la loro ispirazione, tramutandola, lungo due binari paralleli ma non distanti: nel realismo dei panorami urbani di Sironi e nella ricerca metafisica De Chirichiana. Muzio seppe cibarsi di ogni corrente culturale, senza farsi incantare dalle sirene del protagonismo e della visibilità; istruito da studi classici e rinascimentali (il Palladio prima di tutto), sintetizzò nelle sue opere tutta la difficoltà di questo periodo di passaggio, quasi di attesa, tra ciò che fu l’architettura umbertina neoclassica di fine ‘900 e il movimento moderno.
Nella “Cà Brutta” questa sintesi diventa espressione artistica in maniera evidente. Dal punto di vista storico l’edificio rappresenta quel richiamo all’ordine (accantonando dunque le frivolezze), invocato da più parti dopo la tragedia della guerra. Un ordine anche di tipo patriottico, che affermava l’italianità e la sua supremazia contro l’invasione straniera.
Architettonicamente la “Cà Brutta” è un collage di stili che si tengono in equilibrio tra di loro, senza eccessi. La proporzione tra concessioni ornate e elementi classici, è talmente ben dosata che sembra slittare verso uno stile nuovo, giocato tutto sulla giusta misura, sull’aggiungere e togliere. Un’architettura classica ma anche moderna: nello studio della tipologia, nell’impiego delle tecnologie e dei materiali più avanzati dell’epoca, ma anche nel legame stretto che stabiliva con la questione urbanistica. La “Cà Brutta” si imponeva come isolato abitativo innovativo in un panorama urbano dove fiorivano palazzotti della classe sociale benestante o edifici di rappresentanza monumentali. ” (…) il primo meditato tentativo di aggiornare e semplificare, secondo i bisogni ed i costi di un condominio medio borghese, gli stilemi compositivi e decorativi del neoclassico lombardo attraverso una lettura sui generis di Palladio”*.
Muzio dimostra di conoscere le moderne tecniche di costruzione legate all’uso del cemento armato, utilizza l’eternit per il tetto, affianca gli ascensori ai vani scale e organizza un sistema di riscaldamento e di fornitura dell’acqua per ogni appartamento. Inoltre la “Cà Brutta “è il primo edificio italiano a presentare il garage interrato, quando a Milano si girava ancora in carrozza.
Dal punto di vista estetico Muzio fa un uso innovativo dell’ornamento: le sue combinazioni di elementi noti, ripetuti in dimensioni e forme ritagliate su misura per la facciata, creano un effetto straniante nell’osservatore. La composizione, quindi, si posiziona a metà tra l’atto creativo e la parodia dello stile in voga. I volumi si alleggeriscono verso l’alto,così come i colori sfumano in intensità fino a raggiungere i lunghi terrazzi sull’attico. Gli archi, le nicchie, i timpani, le colonne e le serliane, rievocano accenti classicheggianti ma vengono assemblati attraverso un linguaggio incomprensibile, ma non per questo disarmonico. Tutto ciò è profondamente vicino a quella “solitudine dei simboli” matrice della pittura di De Chirico, che tanto turbava la logica dell’osservatore, interprete di quella sensazione di malinconia dal sapore evocativo, che il pittore di Volos, riconoscendola nelle città italiane, chiamava “stimmung”.
Un’opera così anticonformista e di rottura non poteva che essere generata da una mente giovane. Muzio si era laureato nel 1915 e nel 1919, anno di inizio della costruzione della “Cà Brutta”, aveva soltanto 26 anni; terminato l’edificio scelse per lui una casa all’attico quasi a dimostrazione della bontà del suo lavoro. Tutte le singole fasi della costruzione furono infatti seguite con scetticismo dall’ambiente; non appena furono scoperti i piani superiori i giornali cittadini si scagliarono contro la stravaganza delle sue forme architettoniche. La commissione edilizia chiese che ne fossero apportate modifiche, l’ordine degli ingegneri ne invocò la demolizione poiché in contrasto con il gusto accademico borghese che rappresentava la società di quegli anni.
Gli articoli di Mezzanotte e di Piacentini su “Architettura ed arti decorative” contribuirono a svelenire il clima e a sdoganare quel enorme edificio che i milanesi avevano già ribattezzato con spregio, “Cà Brutta”, appunto.
Va ricordato come qualcosa di analogo accadde pochi anni dopo anche a Como, per l’edificio per case di abitazione “Novocomun” opera di Giuseppe Terragni, allora addirittura 23enne.
Il corollario di polemiche è sempre un comune denominatore comune che accompagna le architetture che segnano il momento di svolta di un periodo architettonico, anche di una parentesi piuttosto breve e non prestigiosa come fu quella del “Novecento” italiano. La “Cà Brutta” disturbava le sicurezze e il gusto canonizzato della società che, sempre, si irrita quando non riconosce un linguaggio e non ha il coraggio di accoglierne uno nuovo. Muzio chiude l’epoca del pasticcio architettonico dei primi 20 anni del secolo, gettando di fatto, dopo un overdose di simboli, personalismi, percorsi incomprensibili, equivoci e incomprensioni, le basi del cambiamento pure in Italia.
Il messaggio della “Cà Brutta” è oggi nuovamente d’attualità; l’architettura attraversa ancora un periodo “tardo”, le bizzarrie delle archistar si rincorrono in ogni angolo del pianeta, architetture cloni si ripetono in luoghi molto differenti, il principio dell’apparire e del sensazionalismo ha espulso dal dibattito le teorie di base della disciplina. L’architettura è estranea alle nostre città, ci sono posti dove è scomparsa, altri dove la si confonde con un bel poster. Abbiamo bisogno di un nuovo manifesto. Di giovani che voltino la pagina e aprano nuove porte, nuovi orizzonti.
*: C. De Seta “La cultura architettonica in Italia tra le due guerre” – tomo primo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1978
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