Quel buon’uomo di mio padre non odiava nessuno; nessuno tranne i preti.
E tra i preti, uno in particolare: Don Aldo, Il parroco del paese.
Diceva sempre che Don Aldo era “nu fetent ‘emmerda”.
Non era una valutazione legata al suo profumo. Anzi, Don Aldo, habituè del “Barber shop”, odorava di dopobarba e lacca alla menta.
Per mio padre “fetent ‘emmerda” era il grado più basso nella sua personale scala di valori morali.
Don Aldo era un uomo smilzo, dritto come una scopa, alto quasi due metri che dimostrava meno dei suoi settant’anni soprattutto grazie ad una chioma fluente nero inchiostro pettinata all’indietro, tipo attore cinema muto. Aveva gambe snelle e braccia lunghissime che terminavano in mani enormi utili a dispensare benedizioni. Oppure, al momento della comunione, per allungare le ostie sulle lingue di vecchie bizzoche che supplicavano il perdono.
Talvolta la domenica lo incrociavamo nella piazzetta della chiesa, mentre, circondato dai fedeli discorreva su feste comandate, nozze e morti. Mio padre, strattonandomi, borbottava: “ovillann chillu fetent ’emmerda”.
Finché ebbi modo di conoscerlo da vicino.
Dopo aver ricevuto la mia prima comunione, avevo dieci anni e mezzo, su insistenza di mia nonna fui arruolato nella combriccola dei chierichetti. Mia nonna ci teneva tanto ad avere un nipote che il giorno della festa del Santo, sfilasse in processione subito davanti alla statua. Il suo desiderio era di poter dire alle amiche “quello è mio nipote” indicandomi nel corteo. Proprio come tanti anni prima aveva fatto con mio padre.
Quando mio padre seppe che stavo per entrare nella cricca di Don Aldo prima litigò con la nonna, poi mi chiamò da parte e mi disse: “Statt accort a chillu fetent ’emmerda”.
E, capendo che non capivo, aggiunse: “Dio è una cosa, i preti sono un’altra”.
Era di poche parole, quel buon’uomo di mio padre.
Appresi presto i riti ai quali Don Aldo sottoponeva i chierichetti, tradizioni che si tramandavano di generazione in generazione da almeno trent’anni, da quando cioè era diventato parroco.
Tra tutti, ad esempio, quello che precedeva ogni celebrazione, quando radunava i chierichetti sugli scranni del coro, quindi ne sceglieva un paio e li portava con sé nella sagrestia per farsi aiutare nella vestizione. Era un’operazione che poteva durare anche mezz’ora, mentre noi altri restavamo in attesa.
I chierichetti prescelti uscivano poi uno alla volta riprendendo il loro posto. Infine arrivava Don Aldo che ci passava in rassegna controllando che avessimo tutti il camice in ordine e battezzandoci con un buffetto sulla guancia.
Non tutti potevano accedere alla sagrestia, prima bisognava diventare fedelissimi di Don Aldo, servire almeno cento messe e recitare una specie di preghiera di giuramento davanti al quadro di San Giovanni Nepomuceno, protettore dell’onore e dei segreti. Dipinto di sua esclusiva proprietà che Don Aldo custodiva sotto un velluto rosso e che scopriva solo per l’occorrenza.
Di Don Aldo si diceva che non avesse una vera vocazione e che si fosse fatto prete nel 1940 per sfuggire la chiamata alle armi. Si diceva anche che con la “cresta” sulle offerte si fosse comprato un terreno a Palinuro con entro stante casa rurale. In effetti Don Aldo celebrava messe brevissime dedicando alle prediche poco tempo e banali invettive. Tollerava impaziente le nostre confessioni dove io, memore delle parole di mio padre, mantenevo un certo riserbo sulla natura e la varietà dei miei peccati.
Talvolta, frettoloso, nell’oscurità del confessionale, Don Aldo mi incalzava: “E poi? E poi?”, ma io reticente facevo finta di non ricordare e, dopo aver snocciolato qualche piccolo vizio, dicevo: “E poi niente più”. Al termine dell’interrogatorio recitavo contrito un atto di dolore e per compensare le mie omissioni, aggiungevo qualche “Padre nostro” alla penitenza. Così mi sembrava di aver ottemperato totalmente ai miei obblighi nei confronti di Dio.
Ci tenevo. Dio era una cosa, i preti erano un’altra.
Fare il chierichetto era faticoso, ma c’erano anche dei lati positivi. Don Aldo, infatti, aveva stabilito che anche le bambine potessero servire messa. Ce n’era una, incantevole, che si chiamava Sara. Frequentava ancora la quinta elementare. Di viso era bella come la statua della Madonna di Pompei che stava nella navata di destra, con gli occhi nerissimi e le sopracciglia lunghe e sottili. Anche le bambine potevano essere scelte e avere l’onore di seguire Don Aldo nella sagrestia. Scegliendole dagli scranni del coro, allungava le sue grandi mani tirandosele a sé.
Sara, nonostante non avesse ancora raggiunto le cento messe, aveva già recitato la preghiera ai piedi di San Giovanni Nepomuceno e spesso veniva selezionata da Don Aldo per il rito della vestizione. Una volta la vidi uscire dalla sagrestia piangente e mi sembrò davvero la Madonna.
Ma il chierichetto preferito da Don Aldo restava Giorgio, un ragazzino con i capelli biondi e gli occhi azzurri che frequentava la sezione “B”. Don Aldo lo portava con sé in tutti i suoi giri,anche durante le benedizioni prefestive. Solo alcuni eletti, infatti, potevano accompagnarlo durante il giro per le case del paese dove immancabilmente raccoglieva dolci, liquori, caffè ed ogni tipo di vettovaglia del quale, talvolta, faceva proprio espressa richiesta.
Una sola volta, in occasione di un sabato santo, lo seguii. Raccolsi così tante regalie che me ne vergognai. Non credo che Dio fosse d’accordo con quella questua. D’altronde, ricordai: Dio è una cosa, i preti sono un’altra.
Una domenica mattina, la seconda di quaresima, entrando in chiesa sentimmo delle urla provenire dalla sagrestia. Curiosi, ci avvicinammo per origliare. Una donna stava litigando furiosamente con Don Aldo. Gliene diceva di ogni. Ci fu un rumore di sedie che sbattevano sul pavimento, volarono dei libri, finché,sempre urlando, lei uscì sbattendo violentemente la porta.
Ricordo bene quell’episodio perché quel pomeriggio mia nonna si sentì male, la portammo in ospedale ma tre giorni dopo morì. Subito dopo Sara si iscrisse a danza e mollò la chiesa. Decisi che non c’era più motivo per proseguire la mia carriera da chierichetto.
Così la conclusi: subito dopo aver compiuto dodici anni e senza aver raggiunto le cento messe.
Il giorno che restituii il camice, trovai Don Aldo, in ginocchio, in un angolo della basilica, che recitava le orazioni. Da lontano, con la sua mano enorme, mi fece cenno di riporre la veste su una panca e di allontanarmi. Era curvo e scapigliato, dimostrava ampiamente la sua età. Fu quella l’ultima volta che lo vidi.
Poco dopo Don Aldo fu trasferito in una piccola parrocchia a settanta chilometri dal paese, in una frazione che contava solo poche anime.
Le malelingue sparlarono che se n’era andato a Palinuro a godersi la vecchiaia.
Mio padre disse soltanto: “finalmente hanno cacciato a rint a’chiesa a chillu fetent ‘emmerda”.
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