Si racconta che quando Benito Mussolini, il 18 giugno del 1938, atterrò sull’isola di Pantelleria per controllare i lavori di costruzione dell’aeroporto e delle aviorimesse da lui volute, i locali decisero di dedicargli uno spuntone. Lo scelsero nella zona a sud-est dell’isola e gli diedero il nome di “punta del duce” per la somiglianza, apparente, col profilo del capo. Tuttavia si tratta di un luogo assolutamente irraggiungibile dalla terra ferma, in un punto così ostico che anche dal mare, se fa maestrale, è complicato accostarsi.
Dopo la proclamazione, nella primavera del 1936 dell’impero d’Etiopia, Mussolini volle costruire un aeroporto sull’isola di Pantelleria per nutrire ambizioni di conquista in africa, ma anche come monito per i suoi avversari. L’isola doveva diventare una sorta di portaerei dalla quale sfidare apertamente gli avamposti francesi in Tunisia e inglesi, a Malta. Un atto quasi deliberato di guerra, quando la guerra ancora non c’era. E accanto all’aeroporto, nei profondissimi bunker, avrebbero trovato custodia ben 80 aeromobili, protetti da una struttura in cemento armato così ardita che si favoleggia ci fosse la mano di Pierluigi Nervi (oggi proprietà dell’aeronautica, si entra solo in occasione di visite guidate).
Così in poco meno di due anni, tra il 1937 ed il 1938, arrivarono sull’isola ben 5000 uomini, operai e militari, impegnati nell’intero processo di fortificazione dell’isola, “battendo” decine di sentieri per collegare luoghi strategici quali punta Spadillo, Punta Li Marsi, Balata dei Turchi…
Avvicinato, e non di poco, il luogo al continente, fu proprio l’aeroporto, croce e delizia dei panteschi, il motivo per cui gli alleati dall’8 maggio del 1943, a scopo dimostrativo e propagandistico bombardarono l’isola, trentacinque giorni di assedio per radere al suolo il paese di Pantelleria e annetterlo subito dopo (per questo motivo l’architettura del centro è una pasticcio di volumetrie novecentesche, senza armonia). Bene fece, l’11 giugno, l’ammiraglio Gino Pavesi ad arrendersi ancora prima che arrivassero ordini da Roma. Dopo lo sbarco, agli alleati rimase il controllo dell’isola e più di 11000 prigionieri italiani (e qualche decina di tedeschi).
Ma Mussolini non fu l’unico dittatore a corteggiare Pantelleria e a lasciarne il segno.
L’albergo a Punta Tre Pietre fu costruito negli anni sessanta, in faccia alle coste tunisine, per volere di Gheddafi (l’amico «Muammar» si sente ancora dire da quelle parti) che ne fece suo luogo di ristoro, dependance libica in terra d’Italia. Un lungo palazzo bianco, parallelo alla linea del mare, sbattuto sulla lava nera, con lunghe file di aperture a sesto acuto, tradizionali del Maghreb (ma anche di altri hotel costruiti a poca distanza, interamente italici) e il profilo fiero e ingombrante nella terra dei dammusi e del zibibbo.
L’albergo di proprietà di una società maltese riconducibile al colonnello, già ristrutturato più volte, fu poi chiuso negli anni ottanta, finché la rivoluzione araba ha tagliato i ponti col regime libico, consegnato Gheddafi e le sue gesta al tribunale internazionale de L’Aja e l’hotel, sequestrato e sigillato dalla tributaria, consegnato all’oblio in attesa di risorgere, chissà, a nuova vita.
Ma più del colonnello e del duce, altre dittature dispongono di Pantelleria, e da ben più tempo.
Il vento, ad esempio, deterrente per qualsiasi arbusto. Ma la natura, che ne sa sempre una più del diavolo, ha insegnato alle viti a crescere rasoterra, e non solo a loro. Gli unici alberi ad alzare il fusto sono quelli circondati dal giardino pantesco, una costruzione circolare, primitiva, pietra su pietra, che contiene una sola pianta, solitamente un agrume. Una cortesia dell’uomo, una sorta di chiesa agricola, dove il vento rimane sull’uscio.
Così quell’albero somiglia al pantesco, che si rintana in costruzioni arroccate sulle rocce, i dammusi, un’aula unica (il «sardune») o molteplici (i «loku») all’interno del quale si ritagliano le nicchie (le «casena») e coperto da una o più volte (in siciliano «dammusu» significa proprio intradosso), mentre fuori troviamo la «pinnata», il «passiaturi» e la «ducchena» (a voi le traduzioni).
E’ qui la vera natura del locale, che preferisce vivere nell’entroterra, lontano dalle onde e dagli impervi scogli.
Rispetta il vento e ammira le stelle, il pantesco, non teme più il tiranno in uniforme, né il vulcano che ancora vive e fa le acque calde, ma la dittatura del mare.
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….dello zibibbo….comunque bellissimo articolo! Buone vacanze
Se l’isola fu occupata dagli alleati l’11 giugno 1943 come fece Mussolini ad atterrarvi il 18 giugno 1943?
Gentile Vito, grazie della segnalazione. Si tratta chiaramente di un refuso. L’anno è il 1938. Ho corretto. Grazie ancora.
Da qualche giorno sto scorrazzando per l’isola, il tuo articolo mi ha fatto capire mte cose. Ciao, Amos