DEJA-VU

Ospite della zia, aveva trascorso sull’isola tutte le estati della sua adolescenza.

Un tempo sospeso e soave come solo gli anni della giovinezza sono.

Nicòle sopraggiungeva come una raffica di maestrale.

Le barche si tenevano in darsena pronte a salpare, i cortili si facevano belli di fiori e agrumi. Nelle vetrine delle boutique solo i capi migliori.

I locali la attendevano per riprendere fiato; soffocati dall’afa, reduci dal disagio invernale le spalancavano i portoni.

I suoi amici più cari la aspettavano come gli sprinter tendono i muscoli, sospesi, sullo sparo dello starter.

Nicòle sbarcava con la sua borsa di tela. Vestiti appallottolati e buttati dentro, con le infradito, gli occhiali da sole, i costumi colorati.

La pelle già miracolosamente ombrata sui polpacci sottili.

Iniziava così l’estate di tutti.

Lei non deludeva le speranze. Il suo tempo sull’isola era un’olimpiade annuale, sospendeva battaglie, sanciva paci insospettabili, generava entusiasmi infantili. Le sue folate scuotevano le coscienze impolverate da inutili rancori.

Al lido otteneva deroghe per violare ogni divieto. Là, sulle assi della terrazza, aveva frequentato Nicolas. Quando si conobbero lui era già studente in filosofia e divorava narrativa americana: Carver, Fitzgerald, Cheever. Lei si sentiva Marilyn, stregata dal fascino di quel Miller di provincia.
Nicòle e Nicolas, anche l’onomastica pareva perfetta.

Lui le parlò del grande Gatsby, lei, per ricambiare, lo portò sulla collinetta a guardare il tramonto.

Forse si baciarono.

Al molo Nicòle tormentava Giosuè che conduceva il gozzo. Lui la imbarcava mischiata tra i turisti in gita. In cambio lei faceva da guida.  

Saliva in piedi sulla cabina e raccontava le leggende della costa. Alle domande rispondeva con piglio, a volte inventava. Stavano così, giornate intere a cuocersi al sole. Di quel battello, Nicòle era carburante e motore.

In paese si diceva che Giosuè se ne fosse innamorata.

Lui negava, lei rideva.

Con Sarah stavano ore al tavolino della gelateria. Cominciavano da sole, accompagnate da un cono al cioccolato e pistacchio, radunando fitte compagnie. Resistevano alla notte, si disperdevano solo se qualche inquilino, insonnolito, le invitava a sloggiare.

Sulla spiaggia grande cantavano alla luna, se pioveva sfidavano le onde; imparò a tuffarsi dalla scogliera e pretese che lo facessero tutti. Trascinava tutto il gruppo, almeno una volta all’anno, sul sentiero delle felci a guardare il sorgere del sole.

Rivoluzionò la casa della zia, spostò i mobili, dipinse quadri che appese alle pareti, tinteggiò le stanze di arancione e azzurro. Partecipò alla catena di produzione delle conserve di pomodoro. Piantò alberi nell’orto, costruì una casa per il gatto.

Furono anni straordinari quelli. Soffici e solo apparentemente immateriali.

Quanto sarebbe durato quel periodo? Nicòle se lo chiedeva, a volte. Sommersa da folate di felicità veniva, improvvisamente, percorsa da un brivido. Quel panico le mostrava un inevitabile futuro.

Finché, alla soglia della maturità, Nicòle si sentì travolta.

Estate dopo estate, ogni viso, situazione, luogo, aveva addensato nel deposito della sua coscienza un motivo di gioia o dolore. Erano stalattiti di malinconia, detriti di rimpianto mischiati a cumuli di irripetibile felicità.

Si accorse che pezzi di comitiva iniziavano a mancare. All’appello aumentavano gli assenti, altri erano solo di passaggio. Gli originali sfoltivano, all’archivio si aggiungevano solo fotocopie sbiadite. Fratelli minori, parenti sconosciuti.

L’isola si restrinse. Ogni luogo era solo un pezzo del passato. Percorrendola, Nicòle iniziava a provare solamente un’insopportabile nostalgia. Un lungo, insostenibile e ininterrotto dèjà-vu.

Così l’anno seguente aveva deciso di non tornare.

“Vorrei vedere un altro posto” aveva risposto alla zia che le chiedeva spiegazioni.

Senza Nicòle l’isola non sarebbe stata più la stessa. Forse non ci sarebbe stata neppure più l’estate.

“Sei sicura?”

“Si”.

“Mancherai”.

Da allora era stata a Madrid, Copenhagen, Tallinn.

Poi si era spinta oltre: Giordania, il Caucaso, Giappone.

Luoghi dove puoi andare una volta sola nella vita. Vergini di storie e gravide di immaginazione.

Immuni dalla minaccia dei ricordi.

All’isola non aveva più pensato. Apparteneva ad una sua vita precedente. Come se quella Nicòle fosse scomparsa e ne fosse apparsa un’altra.

Nessun legame. Niente lettere, nessuna telefonata. Così per molte estati.

Finché, sempre in agosto, sua zia morì.

Alla notizia Nicòle rimase a fissare la parete bianca sdraiata sul letto per un tempo infinito. Alla fine si sollevò e prese a riempire la sua borsa con le prime cose che trovò nell’armadio.

Alla biglietteria le dissero che il suo era l’ultimo posto rimasto.

Nicòle lo interpretò come un segno del destino.

Appena giunta sull’isola mi telefonò.

“Sai sono tornata”.

“Sull’isola?”

“Dove sennò?”.

Avevo saputo della morte della zia ma ero convinto che Nicole non volesse più tornarci.

“Quanto tempo resti?”.

“Solo l’indispensabile”.

Al funerale erano in pochi. Qualcuno le strinse la mano chiamandola per nome. Nicòle riconobbe pochi volti. Di altri fece ipotesi.

Quella notte non riuscì a dormire. Al mattino percorse le vie del paese.

Sperava di non ricordare nulla, ma la memoria è un cane troppo fedele: più provi a lanciargli lontano la palla, più sarà lesto a riportarla indietro.

Ripassò in gelateria, al molo, fissò la scogliera. La terrazza del lido era là, le assi disposte identiche. Quella disperazione che l’aveva respinta non era ancora sparita.

La sentiva risalire nelle ossa, come un fascio di corrente elettrica, fino a riaffiorare nel palato con un retrogusto amarognolo.

Ma più li percorreva, più i ricordi si allontanavano, come pezzi di un’altra vita. Erano dieci, cento altri leggerissimi lutti.

A sera iniziò a sentirsi meglio.  

“Anche i ricordi invecchiano” pensò.

“E’ un bene? Un male?”.

Non sapeva decidersi.

Una parte di lei desiderava rimuovere tutto, come se nulla fosse mai avvenuto. Un’altra parte voleva tenersi qualche souvenir del passato in un cassetto della mente, come un giubbetto di salvataggio da usare in caso di naufragio.

Avvertì il dolore affievolirsi.

Le sfiorò l’idea di poter rimanere sull’isola. O di tornarci, sovente.

Quella notte fece un sogno singolare. Lei era dritta sul molo e guardava le barche andare e venire. Con lei c’era anche la zia e altri suoi amici, Nicolas, Sarah, anche Giosuè. Improvvisamente compare un battello con un mucchio di persone a bordo che salutano in direzione della banchina. Nicòle pure saluta, ma non riesce a vedere bene chi. Finché la zia gli indica una persona sulla prua del traghetto che agita la mano. Nicòle allora socchiude gli occhi e vede lei stessa, che la saluta.

La zia le dice: “E’ Nicole! Saluta!”.

Lei ci prova. Spalanca la bocca e prova ad urlare con tutto il fiato che sente di avere nei polmoni, ma non produce nessun suono. La Nicòle sulla banchina si dispera mentre il battello prende il largo e i suoi amici vanno via. Anche la zia è scomparsa. Nicòle rimane sola sul molo. Finché sparisce lei pure.

Quella notte Nicòle dormì molto più a lungo. Svegliandosi si sentì leggera e nuova.

Capii di essere in ritardo. Si vestì in fretta e si diresse svelta al molo, attraversò il paese senza guardarsi intorno. Sentiva chiaramente addosso gli occhi di tutti. Imbarazzata accelerò ancora il passo.

Temeva di perdere il traghetto e di dover restare sull’isola ancora un giorno.

O forse lo sperava.

Raggiunse la banchina giusto in tempo. Mentre riprendeva fiato un uomo con la pelle bruciata dal sole, le si avvicinò.

Lo intravide saltar giù da una barca e correrle incontro.

“Erano vent’anni che non tornavi” le disse guardandola sgomento.

Il calcolo era esatto. Credeva di essere stata la sola ad aver portato il conto.

Ma chi era quell’uomo?.

Nicòle provò a ricordarselo.

Lo fissò, ma la sua memoria sembrava essersi liquefatta. Da quel posto molle e appiccicoso afferrava solo immagini sfuocate e scivolose; una poltiglia di volti e panorami, voci stonate, rumori, profumo di sabbia bagnata e pomodori al sole.

L’uomo le sfiorò il braccio allungando una mano. Nicòle si accorse che gli tremava.

Il traghetto suonò due volte la sirena: l’equipaggio stava per sciogliere gli ormeggi.

“Non sei cambiata” disse alla fine lui, staccandosi.

Ora era lei il dèjà-vu.

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