Se dovessimo valutare il lavoro dell’architetto Ricardo Bofill, scomparso a 82 anni lo scorso 14 gennaio, dalla sua ultima opera, quella a noi più vicina geograficamente, ovvero l’edificio a mezzaluna in piazza della Libertà di Salerno, il giudizio sarebbe impietoso.
Per questo ci sforziamo di pensare che quell’edificio sia opera di qualcun altro o semplicemente sia un errore grossolano, di quelli che vengono scartati per evitare facciano media.
Eppure la medietà non è mai stata la cifra stilistica dell’architetto catalano.
Espulso dalla scuola di architettura di Barcellona per motivi politici, Bofill terminò gli studi a Ginevra per tornare in catalogna e fondare il suo studio, “La fabrica”, recuperando un ex-cementificio, dove creò un equipe con filosofi, matematici ed artisti.
“L’architettura da sola non ha nessun senso” sosteneva.
Abile a mettere d’accordo architettura e politica, Bofill indirizzò il suo lavoro verso macrointerventi, di chiaro stampo postmoderno con tutti i suoi limiti e gli eccessi. Sono di questo primo periodo le sue opere migliori, iconiche, rimaste nell’immaginario collettivo e che gli conferiranno grande popolarità.
Pur predicando il desiderio di adeguarsi ai differenti contesti, Bofill “razzola” sul luoghi con evidente brutalità. Camminando sempre sul baratro tra la «maniera» e il kitsch. Tra il capolavoro e l’ecomostro.
Emblematici in questo senso i complessi de “La muraglia rossa” a Calpe (Alicante), il cosiddetto “Castello di Kafka” a Sant Pere de Ribes, ma soprattutto il fantascientifico Walden7 a Barcellona.
Lasciata la Spagna e approdato in Francia, Bofill affrontò più volte il tema del grattacielo, innestando elementi postmoderni all’interno del volume verticale, come nel tetto del “77 West Wacker Drive” a Chicago. Ma il talento di Bofill viene riconosciuto in tutto il mondo con una serie innumerevole di interventi.
Defunta la spinta ideologica del postmoderno, Bofill non rinuncia alla sua cifra chiara e inconfondibile, trascinando la simbologia anche nelle ultime opere come la sede del Politecnico a Belenguir in Marocco o gli uffici “Corso IIA” a Praga.
Una sorta di nostalgico postmoderno postumo.
Un percorso di rarefazione del linguaggio che non avviene negli interventi residenziali: il paradigma della curva o del semicerchio proposto per la prima volta a Sant Denis coll’ “Espaces d’Abraxas” (1982), ritorna nel complesso “El Anfiteatro” ad Alicante (1983), quindi nel “Les Colonnes de Saint-Christophe” a Cergy-Pontoise (1986) e poi ancora nelle case nel “Distretto Antigone” e con la piazza barocca “Du Nombre d’or” (1989) a Montpellier.
Una coazione a ripetere che Bofill esporta fino a Stoccolma nel 1992 nel “Bofills Båge”. E quindi in Italia, prima a Savona (Savona crescent, 2000) e oramai indigesto e anacronistico, a Salerno nel 2009 con la mezzaluna in Piazza della Libertà.
Che però, per il rispetto che si deve ad un grande architetto, scomparso, non fa media.
(Nell’immagine di copertina: Ricardo Bofill con alle spalle il quartiere di “Les Arcades et Les Temples du Lac” a Saint-Quentin-en-Yvelines)
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