Nella galassia degli scrittori italiani, vale la pena fermarsi sul pianeta di Marco Missiroli, scrittore riminese, che già dal suo romanzo d’esordio, “Senza coda” del 2005, mostrò il suo talento nel raccontare le debolezze e i pensieri dei protagonisti delle sue storie.
Protagonisti in cui c’è sempre una parte dell’autore, anche senza mai sfociare in un’autobiografia autentica, ma fermandosi sempre sulla soglia del condivisibile.
“Avere tutto” (Einaudi, 2022), il suo ultimo libro (Premio Bagutta 2023) è una confessione laica, senza pudore, con sé stesso e con il padre ballerino morente, che richiama le cure del figlio in una Rimini autunnale, semichiusa per manutenzione.
Missiroli riconosce il suo debole, il vizio incancrenito dalla solitudine che soffia sul fuoco del gioco d’azzardo e lo conduce sui tavoli delle case sfitte di Milano a scommettere soldi che non possiede.
Una brama di “avere tutto” che il protagonista, Sandro Pagliarani, mostra già da piccolo e alla quale non riesce ad opporsi fino a mentire alla sua donna e ai suoi genitori pur di sedersi al tavolo da poker.
In uno spazio, che sembra una gabbia, di cose che non si possono avere o forse non si possono più avere, il quesito che torna come un tormento è: “Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno?”, appunto “dove?”.
Rovello inutile, buono soltanto a distrarre la mente dalla scadenza della malattia o a contenere i danni dei sogni infranti e non più realizzabili.
Condanna feroce degli umani: ciò che in fondo lamentiamo di non avere a sufficienza sono sempre i soldi e il tempo. Vorremmo il massimo, tutto, fisicamente e idealmente, ma in realtà, la maggior parte delle volte, non possediamo niente.
Scritto miscelando, continuamente, passato e presente. Intermittente, a tratti disgiunto, un po’ Roth e un po’ Kundera, arditamente smontato; “Avere tutto” barcolla tra durezza e malinconia, strafottenza e maschilismo, amicizia e ineluttabilità del tempo. Fatto di luoghi precisi, la Milano scabrosa di Scerbanenco, la Rimini fumosa di Zurlini.
A tratti persino didascalico, ma furioso nello stile, soppesato parola per parola. Senza scivolamenti, risultato di un lavoro raffinato e amoroso nei confronti del linguaggio.
Ed è un romanzo con il quale, tranne per il fattore biografico, Missiroli recide quasi completamente quel tratto sentimentale, stavo per dire romantico, dei suoi due libri precedenti: “Atti osceni in luogo privato” (2015) e “Fedeltà” (2019), il mio preferito.
Per stare sul pianeta di Missiroli (e vi consiglio di farlo) il minimo sindacale è leggerli tutti e tre.
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