“Un’ottima opportunità per i giovani architetti” così nel 1926 Renato Ricci, squadrista della «prima ora» e presidente dell’Opera Nazionale Balilla, definiva le nasciture “Case del Balilla”: “un’occasione per inventare nuovi linguaggi e inedite tipologie”.
Tuttavia la prima preoccupazione dell’architetto Enrico Del Debbio, quando nel 1927 fu nominato a capo dell’ufficio tecnico della neonata “Opera”, fu definire un modello per quei nuovi edifici destinati all’istruzione ginnico-sportiva dei giovani fascisti.
Si trattava di un campo, quello delle palestre al coperto, pressoché sconosciuto in Italia, per il quale l’architetto carrarese dovette far ricorso alle pubblicazioni che si fece recapitare dal resto del mondo.
Dal manuale che diede alle stampe l’anno seguente, si attingevano i caratteri per la realizzazione delle “Case del Balilla”.
“Costruzioni robuste, semplici e fini, in cui la moderna linearità dei profili e la levigatezza delle superfici, ben si innestano a spunti classici sentiti in modo vivo e originale”. Questa la sintesi dell’urbanista Plinio Marconi in una recensione del volume.
Tuttavia, e per fortuna, alcuni brillanti architetti della nuova generazione fuoriuscirono dall’identikit Deldebbiano (in realtà lui stesso lo fece) realizzando alcuni pregevoli edifici.
Il migliore di questa gioventù fu senza dubbio il romano Luigi Moretti. La sua “Casa del Balilla” a Trastevere, recentemente restaurata, è un autentico capolavoro. Notevoli anche quelle a Trecate e a Piacenza, con l’iconico ingresso ad arco libero.
Anche Adalberto Libera diede della “Casa del Balilla” una sua interpretazione personale, nell’edificio che realizzò nel 1934 a Civitanova Marche.
Ma in generale, laddove i giovani architetti costruirono «da zero» le “Case del Balilla”, ben spaziarono nel neonato linguaggio razionalista. Ebbero coraggio di sbriciolare le convenzioni. Dove invece nacquero sulle macerie di vecchi edifici, l’architettura si riciclò in stili già masticati, ortodossia del manuale.
Accadde a Salerno, dove la “Casa del Balilla”, affidata allo sconosciuto architetto Giuseppe Giuia, sorse sulle macerie del cinema “Savoia” con un unico spazio destinato, di volta in volta, allo svolgimento delle attività ginniche e di rappresentanza. Una palazzina vagamente monumentale e del tutto conformista. Al di là della rigidezza della volumetria, il balzo all’indietro rispetto alle idee di Moretti o Libera è ben evidente dalle modanature e i decori del prospetto, tenacemente bloccato sui motivi umbertini presenti negli edifici del lungomare attiguo. Tanto da non sembrare neanche troppo dissimile dalla “Casa del Combattente”, eretta pochi metri distante, sei anni prima.
L’Opera Nazionale Balilla confluì nel 1937 nella GIL (Gioventù Italiana del Littorio) che scomparve alla dissoluzione del fascismo. Le “Case del Balilla”, laddove possibile, furono riconvertite.
Per i salernitani, la “Casa del Balilla” è meglio nota come l’ex cinema Diana, antro negli anni ‘80 di pellicole a luci rosse. Finché, sventato il rischio della demolizione, fu riconvertito in teatro fino ad intitolarne la sala, nel 2016, a Pier Paolo Pasolini.
Che degli intellettuali, ironia della sorte, fu il più anticonformista.
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Questo articolo è stato pubblicato nella rubrica “L’Archritico” su ulisseonline.it QUI
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