Recupero una pagina dal mio diario di quarta superiore, Salerno, maggio 1992.
Leggo: “Squadre per Torino – Ajax, giovedì ore 16. Ufo bar”. Ci giochiamo la rivincita della sfortunata finale di coppa UEFA.
Due colonne di nomi, anzi cognomi come si fa a scuola. Io schierato nel Torino, con quattro amici.
“Ufo bar” vale per tutto, per il luogo e la generazione prima di tutto e naturalmente anche per il campo di calcetto adiacente all’astronave.
Benvenuti nei rampanti, indimenticati, anni novanta.
L’Ufo bar era uno dei simboli della Salerno degli anni ott/novanta, costruito dall’architetto Giovanni Giannattasio tra il 1976 e il 1978 in via Salvator Allende. Bar, locale notturno, pizzeria; riprendeva la forma di un disco volante, con la sua calotta semisferica in cemento armato sulla quale si aprivano, come oblò, una serie di boccaporti circolari.
Influenzato, probabilmente, dalle strutture del maestro Dante Bini (la casa “La Cupola” per la coppia Vitti/Antonioni), ma anche, chissà, dalle “Bubble house” di Maneval, dalle “Futuro home” di Saarinen e, forse, tornando ancora più indietro nel tempo, dalle visioni dell’urbanista francese Etienne Louis Boullée, Giannattasio realizzò sulla litoranea di Salerno, a poca distanza dalla storica Torre Angellara, la sua idea avveniristica di «Luogo per i giovani».
Un Pantheon, in metafora e fuor di metafora (con tanto di “oculus” centrale allo zenit) in salsa brutalista.
Una sala circolare, su due livelli, con l’ammezzato retto da un pilastro fungoide centrale e raggiungibile con una scala che si arrampicava, costeggiando il perimetro della struttura, fino al piano superiore. Ne restano solo i primi gradini, quelli in muratura, intatta è la fessura nel solaio, un cerchio nel cerchio, finemente levigato sul bordo, illuminata da uno slot di vetrocemento quadrati. Alle pareti ci sono ancora i marmi policromi, pannelli montati in verticale per formare un motivo a “spina di pesce” che fu (ricordano i più attenti) era ripreso anche nella pedana del pavimento.
Si favoleggiava di un’acustica spaziale, confessioni segretissime che scivolavano sulle pareti da un tavolo all’altro; pare ancora di sentirlo il basso “a martello” della tecno e il vocio del popolo della notte, sulla terrazza piastrellata esterna. Tintinnio tra coppette di bloody mary e Alfa 75 che sgommavano nel piazzale.
Eccola la Nostalgia, canaglia: “un incendio che non spegni mai” come cantavano Albano e Romina.
Della parte meno nobile dell’Ufo Bar, il volume dei servizi, rimane ben poco. Sfasciata la copertura, la struttura in ferro regge una serie di pannelli in bilico. Ma è aggirando l’ovoide che compaiono i vecchi campi di calcetto, due se ben ricordo, o ciò che ne rimane, ovvero niente.
Fa eccezione l’intrepida pensilina, a struttura reticolare, sempre in cemento armato, tenacemente sorretta da pilastri circolari, da là si accedeva agli spogliatoi e si risaliva nell’astronave.
Quei campi, incavati proprio come le arene dei gladiatori, erano teatro di sfide apocalittiche.
L’anno scorso la sezione web della celebre rivista Domus, ha inserito l’Ufo bar nelle 10 architetture italiane d’autore abbandonate, “sogni interrotti”, in questo caso dai guai giudiziari del gestore alla fine degli anni novanta.
“(…) it seems to enter some Tatooine tavern from Star Wars” (“sembra di entrare in qualche taverna di Tatooine di Star Wars”) scrive Gerardo Semprebon nella versione online della celebre rivista. E, in effetti, riguardando la celebre scena del capolavoro di George Lucas, gli interni della taverna sul pianeta Tatooine, hanno qualcosa in comune con l’Ufo bar (e non è la clientela): le pareti cementizie grigiastre e le piccole aperture da dove filtra finemente la luce. Tuttavia Star Wars uscì nei cinema italiani nell’ottobre del 1977, quando la navicella salernitana, secondo le cronache, doveva essere quasi terminata.
Ma l’articolo di Domus web è solo uno dei semi di quel rosario della nostalgia, mai del tutto sgranato: agli appelli delle figlie dell’autore si sono uniti quelli sui social e i servizi delle tv locali. La Banda Maje gli ha dedicato un album e un brano: “t’facc sentì na superstar, stasera t’port all’Ufo bar”.
L’architetto Giannattasio (scomparso nel 2003) costruì la sua navicella in una periferia, tra terreni più o meno abbandonati. Poi è arrivato lo stadio Arechi ed ora è là, tra quegli stessi terreni che, spuntando come funghi, le nuove torri residenziali stanno mutando lo skyline della città.
In questa che sarebbe la “Nuova Salerno”, dove aprono e chiudono locali e attività che durano il tempo di una stagione; possibile, mi chiedo, che non ci sia un imprenditore in grado di scommettere sulla riapertura dell’Ufo bar?.
Ci sono tornato qualche settimana fa e l’ho scoperto in macerie.
Ho ripensato alle parole di Vonnegut: “Non ci sono mai stati «i bei vecchi tempi», c’è stato soltanto il tempo”.
Affacciandomi ai campi, ho provato a ritrovare nella mia memoria qualche traccia di quel passato oramai lontanissimo.
Ponendo domande ai miei ricordi.
Tipo: “Ma io e miei quattro amici la vincemmo quella rivincita?”.
FOLLOW ME ON TWITTER Instagram o LINKEDIN
Leggi anche: Invincibili, inevitabili, invedibili. Le città nonostante noi
Necessità dell’alternanza politica