SPARIRE A NEW YORK

Le storie capitano solo a chi le sa raccontare. Analogamente, forse, le esperienze si presentano solo a chi è capace di viverle”.

Se pensate di aver letto abbastanza letteratura americana ma non avete ancora letto Paul Auster, allora non ne avete ancora letta a sufficienza. Specie se pensate che New York sia la città del destino, il centro del mondo, e, magari anche una città da amare come i vostri genitori anche se ubriachi come disse Woody Allen (tra i cantore di NY, probabilmente il più celebre).

E allora tanto vale approcciare Auster con uno dei suoi libri più noti, la raccolta di tre racconti lunghi, dal titolo “Trilogia di New York” pubblicata nel 1987 e caposaldo del postmoderno, tra poliziesco e surreale.

Vi accorgerete presto che Auster è un contaminatore seriale di stili.

Auster Inquina le acque di ogni genere letterario nel quale si bagni, lasciando, talvolta nello scoramento il lettore meno attrezzato. Durante la lettura più volte capita, infatti, di tornare indietro per controllare nomi e luoghi, tracciare i movimenti dei protagonisti lungo il caos della città, alla ricerca di identità e indizi, terrorizzati dalla loro stessa scomparsa.

E, più volte, la tentazione di mollare Auster e i suoi fantastici deliri è forte (ma non bisogna mollare).

Perché le tre storie trovano un compimento solo se corrose fino al fondo.

Lo scrittore che accetta di diventare detective di “città di vetro” ha qualcosa a che vedere con quello che in “Fantasmi” deve pedinare un misterioso personaggio che a sua volta sembra pedinare lui. Ma soprattutto tutti questi spettri urbani tornano in carne e ossa in “La stanza chiusa” (a mio parere superiore ai primi due capitoli) dove lo scrittore si sostituisce al suo amico e modello da bambino, senza riuscire mai a cancellarlo dalla sua vita.

Auster, che all’epoca del libro aveva meno di quarant’anni, è tormentato dall’incubo dell’anonimato. Dalla minaccia di poter scomparire senza lasciare traccia. Comprensibile: è quello che ti può facilmente capitare in una città da più di 8 milioni di abitanti, caotica e vorace. Il suo bisogno disperato di lasciare una traccia è quello di uno scrittore ambizioso e allucinato con lo sguardo sufficientemente poco lucido e disfattista per cogliere aspetti della realtà che altrimenti sfuggirebbero.

Meno apocalittico di De Lillo ma anche meno incomprensibile di David Forster Wallace, Auster, se amate il postmoderno (e la Grande mela), merita un assaggio.

A conti fatti, la vita si riduce a una somma di incontri fortuiti, di coincidenze, di fatti casuali che non rivelano altro che la loro mancanza di scopo”.

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