LA GRANDE OCCASIONE (CHE NON VERRA’ MAI)

Nessuno è stato in grado di raccontare la condizione dell’attesa come è riuscito a fare Dino Buzzati, nel suo romanzo più celebre: “Il deserto dei tartari”.

Assunto giovanissimo al “Corriere della Sera” come praticante, Buzzati, divenuto redattore, trascorreva spesso le notti in attesa che arrivassero notizie meritevoli di attenzione. Durante quelle lunghe, interminabili e identiche attese, Buzzati pensò di trasferire quell’atmosfera di diabolica routine, in un ambiente militare dove la ripetizione di gesti superflui rappresenta la norma.

Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita“.

Così, in “Il deserto dei Tartari”, il neo ufficiale Giovanni Drogo viene spedito alla Fortezza Bastiani, roccaforte al confine nord del regno, presidio a difesa di un eventuale invasione dell’esercito dei Tartari. Scoraggiato dalla destinazione, Drogo tenta subito di tornare alla vita cittadina ma viene affascinato dalla prospettiva di affermarsi come un eroe in grado di salvare la frontiera, dimostrando il proprio valore. Quella che colpisce Drogo, che lo tiene prigioniero alla Fortezza, è una vera e propria malattia.

La malattia dell’attesa.

Così i militari della Fortezza Bastiani trascorrono la proprio esistenza scrutando l’orizzonte, sperando che compaiano finalmente i nemici, per dare un senso, al fine, ad ogni singolo giorno di quell’infinita sosta. Finché, divenuto vicecomandante della Fortezza ma pure anziano e malato, Drogo è costretto a combattere l’unica battaglia che gli è ancora possibile, quella contro la morte.

Seppure piuttosto giovane (il romanzo uscì nel 1940, l’autore lo terminò a 34 anni) Buzzati possiede già la lucidità di mostrare la crudeltà del tempo nei confronti degli uomini che attraversano l’intera vita illudendosi, ogni giorno, che stia per arrivare la loro “grande occasione”, il momento della celebrazione e del successo.

Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di si e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. (…) Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre”

Oggi che l’ambizione di notorietà è alla portata di chiunque, l’attualità del romanzo di Buzzati sconvolge.

Dal nostro piccolo avamposto, abbiamo la pretesa di affrontare nemici immaginari ogni giorno per dimostrarci indispensabili. Così trascorriamo la vita in un’alienante ricerca di felicità, fatta di meccaniche abitudini e ripetizioni incomprensibili, fino a consumare ogni attimo del tempo e la vita stessa. Pur comprendendo il grottesco dei gesti, imitiamo Francesco Drogo, mancando il coraggio di uscire da avvilenti consuetudini per il timore di sciupare il tempo già occupato.

Ma siccome la consapevolezza cresce con l’età e la fiacchezza fisica, Drogo e noi, non riusciamo a far altro che restare imprigionati nella nostra fortezza. Restando a spiare con sospetto un nostro deserto personale.

Leggere “Il deserto dei Tartari” oggi, equivale a sottoporsi ad un set di sedute di autoanalisi psicoterapeutiche.

Per la brillantezza del linguaggio e per l’efficacia del racconto in metafora, Buzzati è affiancato, legittimamente a Kafka. Il paragone lo perseguitò per tutta la vita; ad ogni racconto, scrittura, messaggio di Buzzati si cercò di trovare analogie con l’opera dello scrittore boemo. Ma la via di Buzzati lungo i sentieri del surreale è del tutto personale e sintomatica di un’italianità distinguibile.

I suoi racconti sono farmaci per ogni affanno quotidiano: il destino, la morte, l’amore.

In un ipotetico trio d’attacco del novecento italiano, Buzzati va schierato accanto a Calvino e Pontiggia.

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