Regola vuole che le opere di un’artista raccontino della sua vita.
E viceversa.
Per questo è sempre corretto, cimentandosi nella lettura e nel giudizio di un autore, investigare sulla sua storia. E’ là che si trovano le informazioni principali, le risposte alle domande, le questioni che l’arte inevitabilmente solleva e che, altrimenti, rimarrebbero inevase.
Bene ha fatto, l’artista Ruocco Giuseppe (Minori, 1947) a raccogliere in una breve pubblicazione i suoi ricordi, le tempistiche della sua vicenda personale, i dubbi, le affermazioni e persino le omissioni. Il suo libello dal titolo “Una vita dedicata alla pittura”, l’autobiografia edita da Gutemberg, contiene le istruzioni per leggere in filigrana più di mezzo secolo di pittura, e non solo.
Prima di tutto l’infanzia, non agevole nonostante la meraviglia del borgo natio, “Torre”.
Scrive Ruocco: “componente di una famiglia patriarcale di dieci figli con un capofamiglia contadino per tutta la vita e una moglie allevatrice di figli, nati e cresciuti in una sola stanza e con una finestra sopra il mare di Minori”. Immagini sfuocate ma resistenti; panorami, “fronne di limoni”, amici bambini e antichi maestri. I cortili, i terrazzamenti, la chiesa di San Michele, primo tempio di una fede che sarà sempre più profonda. E poi il paese, Minori appunto, piccolo e lontano, quasi un traguardo, con la spiaggia punteggiata di imbarcazioni dei pescatori, in partenza o appena arrivati.
Poveri di soldi ma non di spirito.
Quindi la morte della madre e il trasferimento a Salerno, in un collegio insieme ad altri bambini, pure orfani. Là, senza dubbio, le basi di quell’educazione vivamente cattolica che inciderà nel suo rapporto religioso con Dio e iconografico con i Santi, accanto a quel senso di malcelata nostalgia del villaggio, (la“libertà negata”) causa di tormenti e affetti indelebili. A seguire l’insegnamento di “Disegno e storia dell’arte”, le lezioni di pittura a Salerno, gli incontri sorprendenti come quello col poeta Alfonso Gatto e successivamente l’apertura del suo studio a Ponteprimario tra il verde di Tramonti. Là si compie in massima parte la vicenda creativa di Ruocco, preferendo la notte, silenziosa e rupestre, tra estati rese ancora più roventi dagli incendi e continue sperimentazioni. Aleggia, tra le tele, la presenza del suo maestro, Mario Carotenuto, consigliere prezioso e punto di riferimento non solo per il Ruocco ma per un’intera generazione di pittori minoresi, una piccola “scuola” che fiorì negli anni ’70 e alla quale il pittore rende sentito omaggio.
Nel racconto autobiografico non sfugge l’attaccamento alla famiglia, alla quale sente il dovere di scusarsi per il “tempo rubato”, la meraviglia di divenire nonno, iniezione di entusiasmo e energia e poi quella definizione di “perdente”, nel senso più esatto di “perditore”, ovvero di chi smarrisce le cose, senza una spiegazione credibile (una volta, confessa, “perse” anche la figlia, affidatagli dalla moglie) ma con l’incrollabile volontà di ritrovarle un giorno. Intanto Ruocco ha ritrovato l’animo e il tempo per esporre una sua personale, dopo quella del 2013 che raccoglieva più di 30 anni di lavori.
Questa è altrettanto ricca, un viaggio che intreccia percorsi differenti per linguaggio e soggetti. Un tentativo di rimettere “in piazza” decine e decine di lavori.
Al visitatore della mostra, che rimarrà aperta fino al 31 agosto a Minori, sul corso Vittorio Emanuele, il compito di trovare i codici giusti. Intanto, ascoltandolo parlare dei suoi quadri e delle sue bottiglie storte, che il caldo modella con arbitraria indole, sembra di fronteggiare un ragazzino.
Così Ruocco ci espone tele e futuro, “perditore” di oggetti, ma non certo della speranza.
(quest’articolo è stato pubblicato nella rubrica “L’Archritico in Ulisseonline.it – QUI)
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