Per comprendere meglio Sorrentino, forse bisognerebbe leggere Scurati.
Ricorda quella del professor Manescalchi protagonista del romanzo “Il sopravvissuto” (premio Campiello, 2005) la vicenda di Fabietto Schisa, sedicenne scampato alla sorte tragica toccata ai genitori grazie alla richiesta (accordata) di andare in trasferta per assistere alla partita di calcio Empoli – Napoli nella primavera del primo scudetto maradoniano (1987).
Così il giovane protagonista trasforma il senso di colpa in ambizione e senso di rivalsa e dalla tragedia il suo desiderio di fare “il cinema” si fa sostanza.
E se fosse la conseguenza di una lunga “Sindrome da sopravvissuto” la straordinaria vicenda cinematografica di Paolo Sorrentino?.
Che, in “E’ stata la mano di Dio” non gira un solo film, ma due.
Nel primo fa ciò che gli riesce meglio: «Fellineggia».
Inizia col traffico di “Otto e mezzo”, prosegue con le visioni mistiche di “Casanova”, aggiunge riunioni familiari con parenti surreali, donne grasse e bellezze mature, dialoghi alla “Amarcord”.
La mano di Sorrentino, del regista, si vede eccome: piani sequenza, carrelli avanti e indietro, diapositive oniriche. In un’età senza orizzonti, è il divino Maradona l’unico riferimento temporale.
Chiuse le bare dei genitori, Sorrentino si adagia sul suo breve romanzo di formazione.
Condensa aspirazioni e ostacoli, tra modelli ed esempi sbagliati. Persino troppo didascalico, perché raccontarsi è sempre un rischio che si dovrebbe far correre ad un altro.
Nel mentre, il mare bagna una Napoli che non si vede. Tra Pozzuoli, l’isolotto d’Isca, Agerola e Capri, del capoluogo resta l’allure, la copertura in ferro-vetro della galleria Umberto I e un lungomare troppo deserto per essere vero.
Sorrentino omaggia il suo mentore Antonio Capuano e trova un modo per consacrare Leone con il rimorso di “C’era una volta in America”, VHS trascurata sulla cassettiera.
E, siccome non si disunisce mai, per l’Oscar dirà la sua.
(Quest’articolo è stato pubblicato nella rubrica “L’Archritico” su ulisseonline.it)
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