VETRO MILITARE

Nonostante i miei tentativi di coinvolgerla, Nunzia non s’è mai interessata all’architettura.

Non sarebbe in grado di riconoscere una basilica gotica da una cattedrale romanica.

Ma, siccome non le manca la curiosità, non è raro che dinanzi ad edifici che trova singolari, mi chieda delle spiegazioni.

La sua attenzione però viene sempre colpita da costruzioni di pessimo gusto come centri commerciali high tech o palazzine dallo stile confuso (lei dice “eclettico”). Non mi stupisce, dunque, che non abbia compreso la fortuna che l’è capitata la settimana scorsa, quando è stata invitata a visitare la Casa del fascio di Como di Giuseppe Terragni.

Quando l’ho saputo sono trasalito.

L’edificio ospita la sede di un corpo militare e l’ingresso è generalmente vietato. Io stesso, quando visitai Como, non riuscii ad entrarci e dovetti accontentarmi di girarci intorno.

“Davvero?” mi ha detto candidamente Nunzia.

“Noi siamo entrati senza nessun problema”.

“Ma noi chi?” le ho chiesto.

“Noi. Io e il colonnello”.

Le amicizie di Nunzia mi sorprendono sempre: il colonnello è un grado parecchio alto, inferiore solo al generale.

“Immagino ti abbiano fatto un permesso speciale”

“No. Abbiamo bussato, un tipo è venuto ad aprirci e il colonnello ha detto solo «lei sta con me!»”

Ripensavo a tutti i miei sforzi per iniziare Nunzia alla storia dell’architettura. Le frustrazioni, gli sguardi interrogativi, le sue osservazioni surreali, i libri che le avevo prestato e che mi aveva restituito senza nemmeno aver sfogliato.

Ed ora questo colonnello aveva avuto la sorte di accompagnarla in giro per la l’opera più rilevante del razionalismo italiano. Un edificio imperscrutabile, quasi mistico, ricco di interrogativi irrisolti. Che poi, figuriamoci! Cosa vuoi che ne sappia un gretto militare di architettura?.

“Che ci fai con un colonnello?”

“Organizzo cene di beneficenza”

 “E’ giovane?”

“Ma chi?”

“Il colonnello!”

“No. E’ appena andato in pensione”.

“Eroe di guerra?”

“Macché. Una vita intera da impiegato là dentro”.

Intorno al vuoto centrale, effettivamente, nella Casa del Fascio ci sono una serie di ambienti dove nel tempo sono stati allocati degli uffici.

“Comunque siamo entrati e il colonnello mi ha mostrato subito l’accesso vetrato che conduce all’atrio e poi, immediatamente dopo, l’enorme vetrata sul quale si apre il cortile interno. Mi ha fatto notare come dall’alto e dalle pareti costruite in vetro e cemento penetra la luce naturale. Abbiamo visto il blu del cielo. Siamo saliti anche ai piani superiori. Il colonnello mi ha mostrato le balaustre delle scale sempre in vetro e poi gli infissi in ferro e vetro di tutte le finestre. Infine siamo arrivati nella sala delle riunioni”.

Mentre Nunzia narrava la sua visita guidata io ripassavo mentalmente la planimetria della Casa, immaginandomi il percorso.

Nella sala delle riunioni una gigantografia del duce campeggiava su una parete alle spalle del tavolo, sul lato corto. Durante il ventennio la sedia corrispondente non veniva mai occupata, per lasciargli idealmente il posto.

Questo avrei potuto dirglielo io.

“Lo sai che sul grande tavolo della sala, una volta c’era un enorme, unico, vetro?”

“Davvero?”.

“Si. Il colonnello mi ha detto che quando si ruppe nessun vetraio riuscì a farlo uguale. Finché erano stati costretti a realizzarlo in più parti”.

“Fantastico” avevo commentato senza nessun entusiasmo. Ero chiaramente invidioso del colonnello. Si notava.

“E poi?” le ho chiesto ansioso.

“E poi niente”.

Nunzia aveva avuto la fortuna di visitare l’interno della Casa del Fascio di Como senza accorgersi del rapporto aritmetico tra gli elementi in facciata, del sistema costruttivo travi pilastri, del cortile centrale sul modello del palazzo rinascimentale. Non si era accorta di nulla di tutto questo.

“Ah si! Alla fine siamo saliti in cima e da là abbiamo guardato il panorama. Uscendo il colonnello mi ha detto che, dopo tanti anni, aveva capito che la cosa più bella di quell’edificio è la sua trasparenza”.

Il racconto era finito così. Con un militare che parlava di trasparenza!.

Siamo rimasti qualche secondo a fissare dinanzi a noi. C’era un bel palazzo in stile umbertino. Le lesene terminavano con degli eleganti timpani semicircolari. I cornicioni erano ben rifiniti, con i bordi arrotondati e la coronatura decorata a stucchi.

Al piano terra, il basamento era stato completamente svuotato per ospitare un grande supermercato.

Dalla porta di ingresso fino all’angolo della palazzina, una gigantesca lastra andava da un lato all’altro, lasciando intravedere l’intero reparto frutta e verdura.

Ci accorgemmo che entrambi stavamo fissando la fila di persone alle casse.

“Come è possibile che non ci siano riusciti?” mi chiese Nunzia improvvisamente.

“A fare cosa?”.

“Il vetro. Il vetro per il tavolo”.

Scossi le spalle lasciando cadere quella domanda nel vuoto, finché ci accorgemmo che stava per piovere e corremmo a recuperare l’auto.

Nei giorni seguenti cercai dappertutto, su ogni libro che posseggo, questa storia del vetro sul tavolo della sala delle riunioni. Ma non trovai nulla.

Riguardai con attenzione tutte le foto pubblicate sui manuali e recuperai anche quelle che avevo scattato personalmente.

In molte di queste ritrovai le vetrate.

E se Nunzia, nella sua ingenua purezza, avesse davvero colto il senso di quell’edificio così misterioso?

“Non verso, ma attraverso quell’architettura bisogna guardare”. pensai “per demolire anche il più rigido degli schemi mentali”.

Così mi convinsi: tutti i miei sacrifici non erano stati vani.

Provai una strana ammirazione per quella donna. E persino un’insospettabile simpatia per quell’anomalo colonnello in pensione.

Tempo dopo Nunzia mi disse che la cena di beneficenza era andata bene. S’era tenuta in una lussuosa sala di un noto albergo del centro, la notizia era apparsa anche su alcuni giornali locali.

“C’era un sacco di gente. Ricca”.

“E il colonnello?”.

“Non è venuto! Lui odia stare al chiuso”.

Approfittai per chiederle se, in fondo, la Casa del Fascio le era piaciuta.

“Ma davvero è un edificio famoso quello?” mi rispose candida.

“E’ su tutti i libri di storia!”.

Nunzia mi guardò perplessa.

“Ti pareva brutto?”.

“No. Brutto no. Ma chissà che fatica lavarne i vetri”.

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