Se domani mattina venisse istituita la laurea in “tuttologia” agli architetti sarebbero abbonati almeno la metà degli esami. Questo perché, tra le figure professionali, è certamente l’architetto quella maggiormente pronta ad affrontare qualsiasi tipo di argomento e soprattutto ogni tipo di domanda, tra le centinaia, con le quali viene bombardato dal suo cliente tipo. L’esperienza e la pratica professionale consentono ad ogni architetto di essere capace di fronteggiare qualsiasi tipo di interrogativo, tuttavia esistono domande particolarmente infide, che possono persino ricorrere, e per le quali è necessario saper trovare le parole giuste.
Ecco le cinque domande più insidiose per un architetto (con le relative risposte suggerite).
“Architetto, ma perché non possiamo demolire questa parete ?”
Per la gente comune, le mura di un edificio sono fastidiosi accessori che in genere impediscono una appropriata sistemazione della cucina. Anche i pilastri, specie quelli sporgenti sono vissuti come inopportuni, spiacevoli episodi che contrastano l’intenzione di collocare la consolle nella giusta posizione. Va detto che, in genere, quando il committente giunge a rivolgersi all’architetto ha già qualche ipotesi progettuale stilata da qualche cugino mezzo geometra, perito agrario o da qualche muratore già impegnato nell’aggiudicazione dell’appalto. Di solito questa soluzione preconfezionata prevede un quasi totale sventramento della casa con abbattimento di ogni tipo di struttura portante, che nella migliore delle ipotesi verrà sostituita con delle tramezzature in cartongesso. Spiegare che demolire pareti portanti o peggio ancora pilastri non è possibile, nonostante l’incombenza di dover incastrare il frigo tra la lavastoviglie e la dispensa, si rivela spesso un impresa ardua.
Risposta consigliata: L’esperienza insegna che il migliore argomento è invocare i più che probabili danni che si possono arrecare alle costruzioni adiacenti, e quindi evocare lo spettro di un colossale risarcimento economico. Cifra che solitamente supera il valore commerciale del frigorifero e della consolle anche sommati.
“Architetto, ma poi la vostra parcella a quanto ammonterebbe ?”
Si tratta di una domanda insidiosissima che viene effettuata quando il cliente è ancora nella fase di esplorazione delle varie ipotesi progettuali, non gli ha ancora conferito ufficialmente l’incarico e ha ancora una mezza idea sostituire l’architetto con altre figure professionali più economiche. Per questo motivo rispondere a questa domanda si rivela un compito molto delicato. Se l’architetto indica una cifra un po’ più bassa per non perdere l’incarico, rischia di diventare una specie di assistente “full-time” del cliente che lo chiamerà anche per scegliere il porta spazzolino da denti, utilizzandolo per otto ore al giorno per tutta la durata dei lavori. Se invece indica una cifra un po’ superiore proprio per sentirsi risarcito pure da eventuali chiamate alle tre di notte o alle sei del mattino, rischia di sentirsi dire “pensavo meno” seguito da un “ci devo pensare”, che in realtà significa “addio”.
Risposta consigliata: L’esperienza insegna di suddividere l’incarico in più parti. E di indicare sempre cifre variabili, facendo intendere che la parcella aumenterà proporzionalmente alle chiamate moleste, questo oltre a garantire all’architetto un giusto compenso, scoraggerà, ad esempio, il cliente ad intimarlo di accompagnarlo dal tappezziere per la scelta del cordino per le tende.
“Architetto, ma perché non possiamo spostare il bagno dall’altra parte della casa ?”
Sembra che per il cliente medio, la tazza del gabinetto sia collegata ad una specie di disgregatore molecolare di materia che fa sparire quanto depositato in un’altra dimensione non appena si pigia sul pulsante dello sciacquone. Identico discorso per le risultanze del lavabo e del bidet; come se sotto il pavimento o nella parete fosse istallato un congegno alieno capace di contraddire la Legge di conservazione della massa, con buona pace di Lavoisier e di tutti i suoi discepoli. Spiegare che ogni bagno è dotato di un sistema di tubature che ha bisogno di diametro e pendenza adeguata e che il tutto confluisce in un sistema, presente in tutte le società civilizzate, che viene comunemente chiamato “fogna pubblica”, a volte può richiedere molta pazienza. Questa incombenza della tubature, unito allo spessore del solaio e alla ubicazione delle condotte verticali, spesso impedisce che i bagni possano venire spostati in qualsiasi posizione della casa come se si trattasse di un comodino.
Risposta consigliata: Anche in questo caso è agevole convincere il cliente con l’argomento economico; poiché spostare un bagno comporta la realizzazione di un nuovo impianto fognario, quindi sollevare il pavimento, forse creare uno scalino ecc. Per rinforzare le ragioni dell’architetto, spesso è utile, rammentare la figura dell’idraulico (e di conseguenza delle sue parcelle) che giunge sul cantiere con il SUV Cayenne della Porsche (guidato da un’autista in livrea) in completo Dolce e Gabbana e stola in volpe bianca della Groenlandia e apre la ventiquattrore in pelle di pitone indiano con le chiavi inglesi placcate oro.
“Architetto, ma che differenza c’è tra voi e il geometra ?”
Questa domanda nasconde un’insidia: a volte, infatti, è solo un elemento discorsivo. Il cliente che vuole socializzare, rendersi amabile, spara il primo luogo comune che gli viene in mente, così tanto per parlare; altre volte è un tentativo assolutamente cosciente e scientifico per abbassare la vostra autostima. Un architetto non si chiede mai cosa lo distingue da un geometra, ma il cliente medio lo vuole sapere, anzi vorrebbe che gli venisse certificato. L’unica differenza sostanziale ravvisabile nella vita quotidiana è che il geometra si fa chiamare volentieri architetto (o ingegnere) mentre l’architetto non si fa chiamare volentieri geometra, ma non è questa la risposta che bisogna dare.
Risposta consigliata: Il quesito può essere affrontato solo con ironia. Bisogna rispondere che la differenza è che all’architetto piace andare all’ikea, mentre al geometra no.
“Architetto, quanto tempo ci vorrà per finire i lavori ?”
Si tratta di un interrogativo che prima o poi verrà posto, di solito avviene prima dell’inizio dei lavori, a volte per pura curiosità, in altre occasioni per scadenze improrogabili, tipo matrimoni, sfratti, nascite di figli o separazioni imminenti ecc.. Bisognerebbe premettere che nessun architetto è in grado di rispondere a questa domanda, poiché l’architetto sarà responsabile dell’inevitabile ritardo solo nella misura del 10%. E nonostante lotti con tutte le sue forze per far andare le cose come dovrebbero, avrà sempre la peggio, perché nessun architetto può realisticamente farcela contro l’esercito di manovali, idraulici, pavimentisti, magazzinieri, elettricisti e ancora tanti altri che inevitabilmente rallenteranno l’esecuzione delle opere.
Risposta consigliata: Essendo per i motivi di cui sopra, assolutamente impossibile prevedere la durata dei lavori, per non commettere clamorosi errori si può seguire la regola dell’”unovirgolacinquepiùundecimo” anche detta “Legge della pazienza architettonica”, che così recita “La durata in mesi di qualsiasi lavoro edile sarà uguale al tempo stimato con la più pessimistica delle previsioni moltiplicato per 1,5, al risultato ottenuto va aggiunto un fattore detto “di pazienza” pari ad 1/10 del valore rilevato”.
Esempio: se pensate che per eseguire i lavori in un appartamento da ristrutturare occorra, nella peggiore delle ipotesi, un anno, applicando il teorema di cui sopra, bisognerà fare 12 (mesi) x 1,5 = 18 + 18/10= 19,8 mesi, ovvero 19 mesi e 24 giorni.
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