ZEBRE ALLO ZOO

Quando ero piccolo i miei genitori portarono me e mio fratello allo zoo.

Era uno zoo molto grande con un mucchio di animali, ma io volevo vedere solo le zebre.

Già durante il viaggio, in auto, lo avevo detto chiaramente: «Io voglio vedere le zebre».

«Ci sono anche le foche!» disse mio padre.

«Lo so, ma io voglio vedere le zebre» ripetevo mentre, seduto sul sedile posteriore, stringevo tra le mani la “Minolta” di mio padre, perché non le volevo solo vedere, desideravo anche una foto nella quale stavamo insieme, io e le zebre.

Nonostante fosse un bel pomeriggio di primavera, lo zoo era quasi deserto.

All’ingresso, subito dopo la biglietteria, una donna grassa alle spalle di un banchetto vendeva semi per gli uccelli; qualche metro più avanti una grande mappa illustrata, montata su un tabellone metallico, mostrava la posizione delle varie specie.

Trascinai mio padre verso la mappa, tirandolo con la mano.

La prima parte, con una serie di gabbie, era interamente dedicata agli uccelli.

Appresso vi era un’area con uno stagno, dove stavano gli animali tipo i coccodrilli, gli ippopotami e le foche.

Una vasta zona era riservata agli animali della savana: leoni, tigri, elefanti e giraffe. Il recinto delle zebre era in un angolo al termine del viale principale.

«Andiamo subito a vedere le zebre!» dissi indicando sul cartello il punto esatto dove dirigerci.

Seguendo un tragitto inverso avremmo potuto iniziare il giro da là e poi proseguire lungo il viale dove avremmo trovato i leoni, le tigri e le scimmie per arrivare, infine, alle gabbie degli uccelli.

Le zebre stavano in uno spiazzo erboso delimitato da un doppio steccato, in fondo al quale era stato costruito un riparo dove potevano rifugiarsi in caso di pioggia.

Era un piccolo capanno, rettangolare con un lato stretto, costruito con assi di legno chiaro accostate e chiuso da un tetto basso.

Scorgemmo da lontano due esemplari, forse spaventati dal nostro arrivo, andare a ripararsi al suo interno.

Rimanemmo qualche minuto poggiati allo steccato in attesa che uscissero.

Ma sembrava che le zebre non avessero nessuna nessuna intenzione di venire fuori.

«Saranno zebre timide» disse mio padre.

«Andiamo prima a vedere gli altri animali» disse mia madre.

«No. Aspettiamo».

«Torneremo dopo».

«Io voglio vedere le zebre» risposi piagnucolando.

Non ero un bambino capriccioso, ma in quell’occasione non avevo nessuna intenzione di ubbidire.

Rimanemmo ancora qualche minuto in attesa che le zebre venissero fuori dal capanno, ma da là non si mossero.

Solo di una, di tanto in tanto, fuoriusciva la coda dal varco di ingresso.

Mia madre provò a convincermi quanto fosse più sensato fare il giro dello zoo e, alla fine, tornare a vedere le zebre. Ma io ero determinato: volevo rimanere là ad aspettare che si mostrassero.

Provarono in tutti i modi a convincermi ma fui irremovibile.

Allora ci fu una discussione al termine della quale fu raggiunto un accordo: mio padre sarebbe rimasto là con me, così mia madre e mio fratello avrebbero potuto visitare lo zoo. Il patto, però, prevedeva che cedessi la macchina fotografica.

Mia madre e mio fratello fecero l’intero percorso: videro molti tipi di scimmie, le tigri, un elefante gigantesco, tre giraffe che addentavano foglie di acacia e decine di uccelli colorati, tra cui un pappagallo che pareva parlasse.

Intanto io e mio padre rimanemmo a fissare il capanno delle zebre in attesa che almeno una venisse fuori. Lo fissavamo concentrati, come se l’intensità dei nostri sguardi le potesse convincere ad uscire.

Ogni tanto rispuntava fuori la coda e allora ci concentravamo più forte. Ma poi la coda scompariva nuovamente dietro le assi del ricovero.

Passò parecchio tempo.

Temevo che da un momento all’altro mio padre si stufasse di aspettare e mi portasse via. Invece non disse nulla, non mi fece domande e rimase, come me, ad aspettare.

Quando fummo esausti, ci sedemmo ai piedi dello steccato poggiandovi la schiena.

«Papà, tu le hai mai viste le zebre?».

«Certo che si».

«Sono belle?».

«Bellissime».

«Ma hanno veramente le strisce bianche e nere?».

«Certo».

«E perché hanno le strisce?».

«Perché sennò si confonderebbero con i cavalli».

«Ma i cavalli hanno i capelli!»

«Infatti. Ognuno si distingue per qualcosa. Tu hai gli occhi verdi, io ho i baffi, i cavalli hanno i capelli e le zebre le strisce».

Non avevo mai pensato che le zebre si potessero confondere con i cavalli. Per i bambini la diversità è un circostanza naturale.

Ripensai a tutti gli animali che conoscevo, ognuno con il suo colore, il suo numero di zampe, i capelli o le strisce.

«Papà, le foche come fanno a distinguersi?».

«Le foche sanno palleggiare col naso».

«Davvero?».

«Certo! »

«Non ci credo!»

«Te lo giuro».

«Allora dobbiamo assolutamente vederle!» risposi, ma non mi mossi.

Si fece quasi scuro, aspettavamo solo mia madre e mio fratello per andar via.

Li vedemmo arrivare da lontano; avvicinandosi gesticolavano, urlandoci qualcosa che non comprendevamo.

Finché capimmo: una zebra, uscita dal capanno, stava proprio dietro di me, a pochi metri dallo steccato.

Mi alzai di scatto, emozionato.

Era una zebra bellissima con tantissime strisce.

“Finalmente” pensai “bisognava solo avere pazienza”.

Rimase qualche secondo a fissarmi mentre masticava un ciuffo d’erba. Poi fece per allontanarsi.

Mio padre agguantò la macchina fotografica incoraggiandomi a mettermi in posa, quindi scattò, prima che fosse troppo tardi.

In macchina mio fratello mi raccontò di aver visto tutti gli animali. Aveva pure comprato i semi e dato da mangiare agli uccelli. Mia madre gli aveva fatto un sacco di foto: davanti alla gabbia dei leoni, accanto ad uno scimpanzé e mentre lanciava i semi al pappagallo parlante.

Per molti anni, a casa, nel mobile antico del soggiorno, abbiamo conservato un album con le foto di quel pomeriggio allo zoo.

Io ci sono in una soltanto.

E’ una foto mossa e, a causa del buio, leggermente sfuocata.

Nell’immagine sono in piedi, stretto in un piumino giallo, tengo le braccia distese lungo il corpo come sull’”Attenti” e sorrido. Dietro di me si intravede una zebra quasi del tutto voltata, mentre si dirige, nuovamente, verso il capanno.

“Papà quando ritorneremo allo zoo andremo subito a vedere le foche palleggiare col naso” dissi sulla via del ritorno.

«Dobbiamo assolutamente vederle!» rispose.

Ma non ci siamo più tornati.

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